Salta al contenuto

9 dicembre 2021


  Ξ Gennaro Agrillo » Salotto Napoletano » 9 dicembre 2021  

Ci sarà il bel pranzo di Natale (9 dicembre 1971)
in “Pizza e champagne” di Mario Stefanile (ed. Prismi – 1996)

Ma, ci sarà ancora il bel pranzo di Natale?

Dopo quanto ha scritto il maggior etnologo e strutturalista vivente, cioé Claude Levy Strauss, sulla evoluzione della cucina come segno dell’evoluzione sociologica, possiamo avere il fondato sospetto che di qui a pochi decenni, avendo l’umanità raggiunto un più alto grado di civilizzazione avrà dimenticato uno dei piaceri fondamentali della vita, quello del mangiare che, secondo attendibili statistiche, viene secondo subito dopo il piacere dell’amore (che si sta come ognuno sa deteriorando anch’esso e di cui il gusto elementare si sta rapidamente perdendo…). Mangiar bene, domani, vorrà dire soltanto nutrirsi più razionalmente e più terapeuticamente con queste pillole e non con quelle pasticche, con questi succhi e non con quegli sciroppi: e dei bei pranzi di una volta, sontuosi e ricchi di calore, con lo scintillio degli argenti fra il nitore della porcellana, con i trofei di fiori sulle candide tovaglie sopraffine chi più ormai serberà non si dice rimpianto ma almeno memoria?


Messaggio festoso

E a Natale, uno dei Natali squallidi del Duemila e tanti, passati magari seimila metri sotto terra per via delle astronavi nemiche o sulla Luna per obbedire alle esortazioni delle Grandi Compagnie di Viaggi Spaziali, che cosa mangeranno i nostri pallidi, denutriti e stupidi pronipoti? Io, proprio per fargli dispetto, per ingelosirli (se saranno capaci almeno di questo) ho pensato di descrivere uno dei bei pranzi di Natale del nostro tempo, diciamo del Natale 1971, di infilare il manoscritto in una bottiglia e lanciarla in mare. Questa volta non sarà un amaro messaggio lanciato da un naufrago a probabili uomini di terraferma bensì, al contrario, un messaggio festoso di un uomo di terraferma lanciato ai probabili (quasi certi) naufraghi del Duemila: e chissà che qualcuno degli ignoti destinatari del manoscritto nella bottiglia non prenda occasione da questo scritto per buttar via pillole e pasticche e muovere come il suo avo alla ricerca del cappone e dell’anguilla, del croccante e della cassata, dell’insalata i rinforzo e del sosamiello …

La bella cucina napoletana con alcune pareti a maioliche antiche (gialle e azzurre, con disegni di tarantelle pulcinellesche intorno a un tegame fumante, con angioletti che recano nella gloria dei cieli beneaguranti cartigli alla felicità del Buori Mangiare) è ormai tutta ricolma di buone cose, i fornitori hanno portato tutto ciò che era stato loro ordinato, la padrona di casa si muove come una corazzata fra navi più piccole in una rada, assistita dalla figliuola che una volta tanto ha smesso di fare la contestatrice e sta attenta alle pentole e alle padelle e dalla fedele domestica-cuoca.
Anche il marito della signora, provveditore di tanta cuccagna culinaria, sta a fumare seduto in un angolo del tavolo di marmo, guarda beatamente la metamorfosi dei suoi quattrini (questa volta un poco più dell’anno passato e molto meno dell’anno venturo) occorsi per acquistare la verdura, la pasta, i condimenti, la frutta, le carni, i pesci, i vini, i liquori per festeggiare Natale.
Ma il signore non si duole, sa che resta poco tempo ormai per questi piaceri naturali e ha girato mezza città, i mercati migliori, per acquistare prodotti in qualche modo schietti e nostrani, rifiutando sofisticazioni, adulterazioni e soperchierie estere in vista di un modestissimo risparmio.

Niente spigole del golfo del Lione ma spigole pescate al traverso della Gajola da Totonno l’antico guardiano del faro; niente aragoste del Baltico congestionate dal freddo cane di lassù oltre che dalla crioscienza di moda, ma aragoste vive e crepitanti di Ponza portate in braccio dal corriere;

niente uva di Tunisi, mele della Bassa Padana, pompelmi di Giaffa e arance del Marocco bensì uva etnea, mele annurche di Campania, arance e mandarini di Sorrento e fichi d’India e meloni tenuti in ceste di vimini o appesi a dovere e per i polli il rifiuto più assoluto di acquistare i mostri canadesi o il pollame col sigillo d’oro, bensì il benvenuto alla tacchìnotta di sei chilogrammi, allevata sull’aia della tenutella di un amico e ingozzata a granone e «monnezza» come si conviene e, infine, vivaddio, niente dolci manipolati sei mesi fa nei laboratori fantascientifici della grande pasticceria lombarda ma la cassata siciliana acquistata da un parente a Catania e spedita per via aerea, il croccante a forma di tricorno con lo zampillo di zucchero filato e il ripieno di struffoli dorati · confezionati dal più vecchio e nobile pasticciere artigiano di Napoli e roccocò e raffioli, sosamielli e mostaccioli, divinoamori e sapienza del convento delle monache di… e il rosolio di cinque agrumi e di fragolette e il nocillo che la cognata nubile ha curato con le sue stesse mani come se avesse allevato una creatura, rispettando i tempi del rituale magico e i suggerimenti del “Credenziere di buon gusto” consultato con l’animo in subbuglio per paura di sbagliare …
E l’anguilla, Dio mio, l’anguilla?


Anguilla viva

Può concepirsi mai una vigilia di Natale senza l’odore dell’anguilla fritta con la fogliolina d’alloro? Ma quali anguille? Comacchio o Lésina o Camargue o Barcellona? Quali eresie, l’anguilla deve essere di buona taglia – un chilogrammo ciascuna, la testa grossa e puntuta da giustificare l’appellativo malizioso di «capitone», di pelle così scura da rasentare il nero sul dorso e biancaverdastra luminescente al ventre – ma pescata nei dintorni immediati, allevata fra Patria e il Fusaro, quasi di foce, mezza di lago costiero e mezza di mare, viscida ma non limacciosa e viva da farsi inseguire per tutta la cucina prima d’essere afferrata e decapitata e ridotta in più pezzi divincolanti.
E poi, come dimenticare accanto a questo il rituale pezzo di «mussillo» in bianco da far vergognare quasi la spigola del suo sapore insipido? Il «mussillo» è il filetto del baccalà, cioè del merluzzo salato e messo a bagno di sola acqua. Ma niente merluzzetti da due chilogrammi scarsi venuti dal mare siberiano o dal nord della Norvegia, ci vuole il merluzzo autentico dei banchi di Terranova, che sa di oceano e di tempesta, non di iceberg e di cineserie: e l’olio deve essere degli oliveti di Massa Lubrense, il prezzemolo degli orti suburbani della zona ancora in parte delle «Paludi» partenopee, alto, trionfante, frondoso e l’aglio sia giallognolo, piccolo, a spicchi irregolari, del vero “allium sativum nostranum” e non quello di Francia o trevigiano a testa idrocefala che sa di terra. Sistemata la parte ittica, due broccoletti neri di Natale, ben callosi, da far lessi e condire freddi con olio e limone (limoni d’Amalfi, per carità, non limoni spagnoli buoni semmai per cavarvi la marmellata all’inglese), tanto per aprire lo stomaco, la sera della Vigilia e far seguire subito un pugno di vermicelli aglio, oglio e vongole in bianco.


Spigola a vapore

Questo è il punto chiave, per me, d’ogni pranzo di Natale: perché chi ha speso con indifferenza un patrimonio per tutto il resto poi finisce che lesina per le vongole, compra quelle venute da Venezia surgelate o quelle già scottate in sacchetti di plastica e invece le vongole debbono essere le nostre del Golfo, del Castello, nere, piccole, vive, sprizzanti zampilli di acqua salsa a ogni respiro, spurgatissime e cotte in bianco, senza aggiunta di salse di nessun tipo. Una buona manciata per ogni porzioncina di vermicelli di semola di grano dura, cotti al dente e restati «vierde vierde» come ammonisce I’immortale nostro patrono Don Ippolito Cavalcanti duca di Buonvicino nel suo aureo trattato di cucina napoletana. Naturalmente anche qui un ciuffettino di prezzemolo aggiunto all’ultimo momento per lasciare intatta la fragranza e una spruzzatina di pepe nero Tellichery o pepe bianco Muntock appena appena tritato dal macinino.
Del pesce s’è detto: e io consiglierei di procedere nell’ordine, introducendo dapprima il mussillo in bianco, alto e quasi perlaceo che, come diceva un illustre guappo napoletano e buongustaio si deve «sfogliare cumme ‘a nu mazzo ‘e carte», per rendere icasticamente l’idea della forchetta che sfalda il bel pezzo, lo trascina in giro nell’olio sopraffino, lo colloca sul pezzettino di pane casareccio, lo porta alla bocca in un rituale pressoché perfetto. Poi passerei alla spigola a vapore, cotta cioè «sopra» la pesciera, col solo vapore acqueo che, sobollendo, vi sale così da non corrompersi, non rompersi e non perdere sapore, che già naturalmente è poco. S’intende che nell’acqua della pesciera vanno messi mezzi limoni a metà strizzati, prezzemolo, patate, sedano e un filo d’olio così che il vapore già sia odoroso e grasso e possa intridere meglio la spigola. Oppure fatela arrosto o meglio ancora in «guazzetto rosa» che a mio avviso è la maniera eccellentissima di cucinare una spigola fresca. Mettetela nella pesciera, con un sughettino lasco lasco di pomodori freschi, un aglio, del prezzemolo, un pizzichino di sale e qualche gambero e fate cuocere assai poco, sì da «salmonare» quasi la spigola che, aperta nel piatto di portata oblungo (o cucinatela nella bassa pirofila da pesce, se volete) sarà come un fascio di rose …
E dopo l’aragosta, se Dio consente. All’armoricana, cioè arrostita e cosparsa di cognac e pan grattato o lessa anch’essa e in bella vista, cioè tagliata a dischi da riporre nelle carcasse divise a metà. E passate poi all’insalata di rinforzo o di rincalzo, stupenda invenzione della cucina povera e ardita di noi napoletani, un trionfo d’erbaggi e verdure da far trasecolare tutti i mangiatori di carni che si correggono con le loro dure e legnose «giardiniere all’aceto».


Superbi cavoli

Dunque prendete dei superbi cavoli, bianchi e stretti e fioriti al punto sacrosanto, di Nocera o anche, suvvia, degli orti di Scafati o di Angri, lessateli ma che restino al dente e collocateli, ben divisi nei loro ciuffi fioriti, in una capacissima insalatiera. Con i cavoli prendete dei peperoni rossi e verdi tenuti in bagno d’aceto e sale tre mesi e così cotti ma callosissimi e divideteli a listerelli, ma con le mani, il ferro delle lame li altera nel sapore, e poi delle acciughe salate (quelle in vasetto di coccio, fatte sulla spiaggia di Cetara dagli «aliciai», mica quelle enormi, cosiddette «alla carne», che vengono da Pantelleria o, peggio, dal Portogallo) e delle olive nere di Gaeta che a strizzarle fra le dita colano un sugo rosso come d’anilina e olive verdi dolci, tenerissime, sapide, dal nocciolo enorme e poca polpa e versate olio in abbondanza e ancora un bel misurino d’aceto di vino rosso, aspro e forte. Fate macerare, imbibire, intridere, nutrire questa insalata e chiudete con essa la vigilia natalizia, magari sgranocchiando soltanto qualche mandorla, qualche nocciola, qualche castagna secca e finendo sul serio con un bicchierino di nocillo della cognata nubile. Andate cioè leggeri, la Vigilia è quasi digiuno.
Vi rifarete l’indomani, con le tagliatelle all’uovo fatte in casa e cotte nel brodo ottenuto dalla tacchinotta alla quale avete dato una prima cottura in pentola (aggiungendovi, è ovvio del petto di vaccina, del muscolo di bue, dell’osso di ginocchio). Mangiatene poche, perché poi dovrete fare onore alla tacchina al forno con patate novelline rosolate nel suo stesso sugo e al gran fritto alla napoletana che impegnerà un po’ tutte le donne di casa intorno ai fornelli: i panzarottini di patate, le sfogliette alla ricotta, i pezzetti di fegato, di cervella, di animelle, la mozzarellina, la borragine, il triangolino di polenta rassodata (detto «scagliuozzolo») le pizzettine all’uovo, al formaggio, al prosciutto e nude, i carciofi tagliati in quattro, i funghettini, le patate a fiammifero e così via.
Un po’ di sosta e poi passate ai dolci, alla cassata molle al punto giusto, ricchissima di naspro al pistacchio e di frutta candita supertroneggiata dal mandarino intero, col gambo e la fogliolina e agli struffoli nel croccante a forma di tricorno o di fontana o di cornucopia e alla pasta di mandorle e alla pasta reale e ai dolci tradizionali, sorseggiandovi su il rosolio rosa e trasparente alla fragoletta o quello verdegnolo e opaco ai cinque agrumi, per passare alfine alla bella frutta che anche vi ho detto. (Ma tra il fritto alla napoletana e la cassata io, per la verità, mangerei qualche coserellina d’altro, una quisquilia, diciamo uno spicchio – o due? – di finocchio «masculo» (cioè a testa quasi sferica, sodissima, bianca) strisciata nel sale e nel filino d’olio appena appena pepato e poi, ogni tanto, piluccherei un ravanello a testina tonda, pimpante e birichino: ma beninteso finocchi e ravanelli di orti di periferia, ben concimati a letame naturale e benissimo lavati, magari anche con una goccia di amuchina per togliere via i peggiori germi). Poi i dolci, come vi ho detto e l’altra più nobile e pretenziosa frutta dominata dalla mela annurca, regina delle mele come è definita a ragione e qualche chicco d’uva sultanina (i «follarelli» della Costa), qualche pinolo fatto in casa dalla pigna abbrustolita nel camino, l’odore del Natale, il bicchiere colmo di Taurasi o di Lacrima Christi bianco, di Lettere guizzante o di Terzigno sferrazuolo, di Capri reale o di Ischia diabolico, roba di casa nostra insomma che altri vini in toga e parrucca non vede anzi disdegna e tiene come si converrebbe, veramente a vile.
E un poco ancora di nocillo …
Non so se i miei posteri del Duemila e tanti vorranno continuare a ingoiare pillole o pasticche, ma ho i miei dubbi. Io, intanto, vado nella mia bella cucina maiolicata a vedere come si procede.


          

La croccante

Che sono quelle biondissime fontane da cui traboccano naspri e canditi? Che sono quei castelli, quei ponticelli, quei canestri, quei trionfi che ogni pasticceria espone come modelli di una topografia gastronomica pazientissima? Sono giochi della fantasia dolciaria napoletana che nel modellino in miniatura trova il piccolo segreto di rendervi felici per un momento, il momento delizioso di rompere la fontana, il castello, il ponte, il canestro e di portare alla bocca uno di quei pezzi dove la mandorla tostata e il miele si sono sposati, dove il confettino variopinto aggiunge una nota acuta, dove la ciliegia candita e il cedro e lo struffolo infiocchettato di scorzette d’arancio correggono amabilmente il leggerissimo amarognolo della mandorla tostata.
Questa è la croccante, cosiddetta appunto perché è l’emblema sublime della qualità fondamentale di codesto dolce: e non occorrono denti di lupo, giovani denti bianchi – di quelli che lampeggiano nèl bruno volto saraceno dei napoletani e delle napoletane – per sgranocchiarlo convenientemente: perché il miele ha intenerito il cuore delle mandorle e in bocca i pezzettini di castelli e di fontane son pronti a cedere ogni durezza, si lasciano vincere dalla lingua, si arrendono alla gola ghiottona. E se fra l’uno e l’altro merlo, fra l’una e l’altra voluta di croccante non dimenticate un avaro sorso di nocillo, liquore che si apparenta secondo le origini a questo dolce, avrete sagacemente arpeggiato il vostro gusto secondo la più perfetta gamma che ghiottone in viaggio possa mai provare.


Gli struffoli

Dolci per bambini o per vecchi questi «struffoli» napoletani, allegri e insieme dignitosi? Per bambini e per vecchi, per uomini e per donne: tanto vanno bene per ogni gusto e preferenza, appena appena mielati, biondissime palline che si dispongono ad anelli o riempiono le croccanti. Anche qui soltanto farina e uova, miele e scorzetta d’arancio candita: i quattro elementi della dolciaria napoletana che non se la fa troppo con creme grasse o con sciroppi troppo densi e preferisce il gioco elementare e innocente, quello che può dare il capolavoro. No, non sono un capolavoro gli struffoli, dolce casalingo e tuttavia pregevole, da non ignorare, da assaggiare felicemente, soprattutto a Natale, da rubacchiare con noncuranza mentre s’aspetta il conto e il sorriso premuroso e affettuoso dell’oste per il suo miglior cliente forestiero.


Dolci natalizi

Con la pasta reale i pasticcieri napoletani a gara con quelli siciliani sono capaci d’imitare alla perfezione quanti mai frutti di terra o di mare esistono: e compongono degli straordinari «trionfi» di questa variopinta perfetta frutta fatta di mandole e di zucchero. A Natale ne traboccano le vetrine e gareggiano con i «mostaccioli» (farina, zucchero, mandorle e cioccolata), con i «raffìòli» semplici o a cassata, con i «roccocò» dall’odore di cannella, con i «sosamielli» anch’essi di farina e mandorle ma speziati un pò’ di più, con i «quaresimali» e via via: tutti dolci tradizionali che stanno bene con la frutta secca proprio d’uso delle feste di Natale e di Capodanno.
Il sosamiello napoletano una volta si distingueva in «sosamiello nobile», in «sosamiello per zampognari» e «sosamiello del buon cammino». Il primo, che si offriva alle persone di riguardo venute a dar gli auguri natalizi di persona (non si usava ancora la «Christmas card» venutaci dall’America … ) era fatto di farina bianca ed era di forma rotonda, mentre il secondo che si offriva appunto agli zampognari venuti a far la novena davanti al presepe o ai coloni o ai domestici era a forma di «esse» ed era fatto di farina scura, di rottami di mandorle e di melasso. «Il sosamiello del buon cammino» invece era fatto da un impasto di mandorla ma conteneva nel suo interno molta marmellata di amarena e veniva offerto di solito ai religiosi. Si dice che il «sosamiello nobile», offerto a signorine nubili venisse da loro conservato fra la biancheria nei cassetti per qualche settimana; diventato così più morbido, veniva sgranocchiato nei lunghi pomeriggi deserti …
Un altro dolce tipico del Natale napoletano è il «mostacciolo», un dolce a forma di rombo, fatto di farina, pochissima farina di mandorla e molto «pisto» che viene ricoperto da uno strato di cioccolato al naspro e che deve mangiarsi freschissimo, come d’altronde i raffioli, fatti di pan di Spagna e crema, qualche cosa di simile alla cassata siciliana ma senza il bordo di pasta di pistacchio e senza pezzetti di cioccolata.
Il «roccocò» invece, a forma di anello schiacciatissimo è fatto di farina impastata con farina di mandorla finissima e mandorle intere, ma contiene il più famoso «pisto» dei pasticcieri, composto da cannella, noce moscata e chiodi di garofano. Infornato, il roccocò acquista quell’aroma particolarissimo col quale lega sorprendentemente l’anisetta e in genere ogni genere di rosolio, come la fragoletta o il nocillo.
Vi sono infine le paste reali che non bisogna confondere con le paste di mandorla: perché le prime sono un impasto a crudo di mandorle passate per il rullo e raffinatissime, con aggiunta di zucchero, mentre le seconde sono di mandorle infornate e inasprite.
Le paste reali nacquero nei conventi, erano a forma di cuore, dipinte con rosolio rosa, portavano al centro un confettino d’argento e soltanto per l’intraprendenza di alcuni pasticcieri siciliani si diffusero poi nelle botteghe. Oggi, per distinguere la vecchia pasta reale d’origine conventuale i pasticcieri chiamano «Divino Amore» quella con l’aggiunta di uovo, di forma ovale dipinto di rosa è il dolce per i buongustai rispettosi dell’aurea tradizione natalizia.