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Il colera del 1836


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Ferdinando_II

in “Quando Napoli era Capitale” di Antonio Scotti

Il colera a Napoli si presentò in forma grave nel 1836. Che annata fu quella! Trecentocinquantamila napoletani, i quali abitavano la Capitale, non la dimenticarono per diverso tempo tramandandola di generazione in generazione.
Un anno denso di avvenimenti: lieti e tristi, terribili e consolanti, per una Napoli ottocentesca. Una Napoli che Stehdhal e Mayer descrissero con lo stile di un carnet del turista ante litteram: un po’ allegro, un po’ disinvolto, un po’ innamorato, un po’ cattivello, un po’ veritiero.
Stendhal definì via Toledo «la strada più popolosa e più gaia dell’universo», il Mayer cercò di porre sul piatto della bilancia di una conoscenza «sommaria», ma in ogni caso abbastanza approfondita, pregi e difetti.
Era una città unica, con caffè ricolmi, ricca di vita e di allegria, soffusa di malinconia, contemporaneamente effervescente di colore e di musica, di stati d’animo e di pensieri. Soldati e «paglietti», frati e monaci. I forestieri non si contavano: due anni dopo il colera (nel 1838) venivano contati in settemila presenze. Pregi e difetti: lastroni perfetti per la pavimentazione, case alte e fresche, fondaci e igiene sui … generis. Anche allora, alle volte, Giove Pluvio era considerato lo «spazzino ufficiale» e onorario della città (n.d.r.: come, per l’epoca in tutta Europa). Nulla cambia (di molto) anche se il paragone è sempre favorevole alla Napoli borbonica sotto il cielo di Napoli.
Una annata, dunque, particolare. Tante cose accadevano o erano già accadute. Tutto bene all’avvio. Il 16 gennaio alle ore 8,30, ad esempio, i cannoni dei forti cominciarono a tirare a «salve». Era nato Francesco, Gennaro, Emanuele, erede al trono delle Due Sicilie. I napoletani avevano gioito sinceramente perchè a tutti era simpatica l’elegante e pia Maria Cristina. La mamma, la regina. A fine mese il sorriso si spense: la città fu preda della malinconia. Maria Cristina, colpita da febbre dopo il parto, moriva. Il popolo, come già abbiamo detto, la pianse a lungo. E doveva versare lacrime ancora più amare in seguito. Appunto per lo scoppio dell’epidemia di colera.
C’era tensione in giro, lo si era notato in agosto. A Capua, il giorno 27, c’era stato tra i soldati di un reggimento napoletano e del 4° reggimento svizzero uno scontro. Furono «stesi» nove soldati della confederazione. Il colonnello comandante, che si era interposto, fu ucciso. Il re si vide costretto a licenziare duecento svizzeri con armi e bagagli. C’era una certa rivalità, ma non c’è dubbio che «qualcuno» gettò olio sul fuoco ben sapendo come i reggimenti svizzeri costituissero una forza e con i «tempi» tristi che stavano per scoppiare mettere in difficoltà il re sarebbe stato gioco facile. Il trucco riuscirà, del resto, nel 1859, dopo la morte di Ferdinando e quando al trono era appena asceso Francesco II, ignaro delle manovre oscure per travolgere lo stato borbonico.Proprio in agosto, a fine mese, Ferdinando era ritornato da Tolone ed aveva voluto, per primo, rispettare le norme del regolamento sanitario. Era rimasto a bordo per 48 ore sottoponendosi alle cure profilattiche.
Il 2 ottobre, purtroppo, si ebbero i primi casi. C’era stata la solita avvisaglia proveniente dal nord Europa, quindi per le strade di Puglia (da Barletta in modo particolare) il morbo si infiltrò nel regno. Polemica subito in atto: morbo contagioso o meno? I medici erano divisi. Il popolo per nulla: credeva nel contagio. Ed il popolo, si sa, ha sempre ragione.
La prima ad essere colpita fu una donna rimasta sconosciuta, poi un doganiere. Un certo signor Maggi. Il doganiere era conosciuto e la sua morte destò allarme e preoccupazione. Nello stesso giorno del 2 ottobre furono registrati ben diciannove vittime.
Il re, il quale al tempo dei primi sintomi del morbo aveva inviato in Europa i medici per osservare il diffondersi dell’epidemia da vicino, convocò il consiglio dei ministri ed i generali. Il 21 ottobre si recò a visitare gli ospedali cittadini e dette le opportune disposizioni sanitarie. Il 24 ottobre furono registrati 217 casi, i morti erano 110. In novembre i casi fra i civili salirono a 7.914 e i morti furono 4.329, fra i militari si erano registrati 282 casi dei quali 115 letali.
La città aveva perduto il proprio volto gaio e spensierato. I teatri, per ordine superiore, rimasero aperti. Così i locali pubblici. Frequentati da «coraggiosi» e «curiosi». Il comportamento delle autorità fu tempestivo. Il re si mostrò ovunque: comprese che doveva incutere fiducia nella cittadinanza. Volle scendere tra il popolo: «Figli miei – diceva – sono venuto tra di voi per vedere con i miei occhi quello che si può fare». Ispezionò i mercati, ordinò alla Gendarmeria di sorvegliare affinché i prezzi dei generi alimentari non fossero aumentati, predispose i lazzaretti, creò in ogni quartiere cittadino quattro (sic!) ambulatori, invitò i farmacisti a collaborare, intensificò il «cordone sanitario» per i naviganti.
In presenza dei soldati mangiò il loro pane e smentì, così, con un comportamento deciso le «voci» che circolavano sulle fonti del male e che determinavano reazioni inconsulte. In Sicilia, per citare un esempio, un tale Mario Adorbo affermava pubblicamente che il colera proveniva dall’effetto dell’arsenico vagante nell’aria e che il rimedio consisteva nel «far fuori i proprietari»! Eccessi e furie improvvise furono registrate in tutto il regno, al di qua ed al di là del Faro. Si speculava, insomma, sull’ignoranza generale.
Il Petruccelli della Gattina confermerà chiaramente, in Parlamento unificato, di aver propagandato notizie tendenziose nei confronti del trono.
Esisteva un rituale: infermieri e addetti si presentavano nelle case «infette» indossando una veste di «pece nera», con larghi cappucci: lo stato d’animo di quanti assistevano alla scena è comprensibile, ebbene anche in questo caso, il re intervenne e proibì tale esibizione da mascherata. Fece intendere a tutti che il contagio non era una conseguenza indispensabile del diffondersi della malattia.
Il Callà Ulloa racconta, al riguardo, in quale maniera si comportò Ferdinando II nell’apprendere la notizia della grande infermità che aveva colpito il generale Vito Nunziante: «Pericolando il Nunziante, il re accorse a lui e doloroso fu il congedo estremo. La Monarchia perdeva un noto difensore, l’esercito un sostegno, le industrie ed il commercio un protettore. Le gelosia di partito tacquero sulla tomba» (almeno questo accadeva all’epoca!).
Il 25 dicembre Ferdinando volle aprire solennemente il gran Tempio di San Francesco di Paola, nella piazza antistante il Palazzo, tempio avviato alla costruzione dal nonno Ferdinando IV poi I.
Il colera dopo una stasi riprese nel 1837. Oltre il Nunziante erano stati colpiti il generale d’Escamard, il tenente Fardella, già ministro della Guerra, il famoso maresciallo Alessandro Begani ed il compositore Nicola Zingarelli.
Al fianco dei militari, ed in particolare gli ufficiali del servizio medico dell’Armata di Terra e di Mare, si erano battuti contro il morbo, moltissimo, i sanitari. Si ricordano i giovani medici Ramaglia, Nunziata, Diberti, Chiaja, Manfrè ed i più anziani De Renzis, Romano, Vulpas, Carbonara, Palasciano.
Tutti i ritrovati della medicina del tempo furono applicati, inoltre la lotta a quanto aveva il sapore della superstizione, della riluttanza a sottoporsi alle cure, fu condotta con la massima energia. Il 24 ottobre il Ministro dell’Interno, all’ospedale Santa Maria di Loreto, ricovero dei colerosi, ordinò di sperimentare su trentasette ammalati un medicamento fatto di vino con polvere di frutta di platano: ventotto ammalati guarirono, soltanto otto decedettero ed uno rimase a letto ma con febbre lieve. Le sezioni colpite in percentuali furono:
– San Ferdinando 8,30 per cento;
– Chiaia 16 per cento;
– San Giuseppe 10,80 per cento;
– Montecalvario 6,90 per cento;
– Avvocata 4,30 per cento;
– Stella 5,40 per cento;
– San Carlo all’Arena 11,70 per cento;
– Vicaria 9,70 per cento;
– San Lorenzo 9,40 per cento;
– Pendino 17,70 per cento;
– Mercato 18,90 per cento;
– Porto 36,60 per cento.
Nel luglio del 1837 il colera potè dirsi debellato. Era costato circa 20 mila vite umane, bisogna dire però, considerati i tempi, che il «contenimento» dell’epidemia era stato elevato.
Per Ferdinando II, in ogni caso, e per i poveri napoletani, purtroppo, il colera non fu un episodio dimenticato. Nel 1854 l’epidemia si svilupperà nuovamente: comincerà nel luglio e nell’agosto, ottantacinquemila persone lasceranno la città.
Il re ed il governo, forti delle passate esperienze, reagiranno con fermezza: in ciascuna sezione della città verrà creato un «deposito» per mille letti (a parte i conventi ed i lazzaretti), le farmacie saranno obbligate a fornire gratis le medicine. Ferdinanto II farà allestire altri cinque spedali: Loreto, Pacella, Posillipo, al Vico Nilo, Madonna delle Grazie. E l’epidemia verrà circoscritta più rapidamente. Napoli sarebbe salita a quattrocentomila abitanti e i fermenti rivoluzionari, dopo il ’48, avrebbero toccato punte esasperanti.
Scrive l’Acton: «Le voci allarmistiche vennero soffocate e coloro che avevano cominciato a spargerle furono prontamente sottoposti ad azione penale come pure i profittatori e gli accaparratori. Si impose un calmiere, si minacciarono di pene corporali i negozianti riluttanti a servire il pubblico, si fece in modo che ai poveri non mancassero nè carne, nè limone; i farmacisti che negavano loro le medicine finirono in carcere, i becchini furono organizzati in squadre con gravi punizioni per chiunque fra loro si fosse sottratto al proprio dovere».
Con il cardinale arcivescovo Riario Sforza anche in questa occasione il Sovrano darà prova di coraggio personale: trascorrerà gran parte della giornata negli ospedali e nei quartieri più affollati. Quando i popolani gli si affolleranno intorno gridando: «Sire ci avvelenano», risponderà: «Bene! Sono venuto qui per farmi avvelenare con voi e tenervi compagnia».
Era il Ferdinando non ancora minato dal male che giovane lo dovrà condurre alla tomba. Un re che dalla giovinezza dava dimostrazione di coraggio affrontando un nemico che non era preventivato: il colera. Il popolo di Napoli non dimenticherà il suo atteggiamento: lo dimenticheranno borghesia e parte dell’aristocrazia. Così va il mondo.