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in “Storia, miti e leggende dei Campi Flegrei”
di Giampaolo Infusino
I Campi Flegrei, ovvero i campi ardenti della terra di fuoco, si identificano con quella porzione di territorio ad ovest di Napoli che dalla punta Posillipo si estende, cinta dalla collina dei Camaldoli fino alla piana di Quarto e di lì più su lungo la via Domiziana oltre la rocca di Cuma, fino alle sponde del lago Patria (1).
Furono i navigatori greci di ritorno dai loro viaggi di esplorazione a descrivere con questo aggettivo lo straordinario paesaggio fatto di colonne di fumo, di vulcani ardenti, di lingue di fuoco alte nel cielo limpido che, con il loro riflesso nel mare, rendevano le acque prospicienti la costa inquietanti e misteriose.
In questo piccolo ed inquieto lembo di mondo le memorie storiche, artistiche e letterarie di intere civiltà si fondono indissolubilmente con uno scenario fiabesco.
E’ per questo che nel secolo scorso i campi ardenti divengono per i moderni viaggiatori, tappa fondamentale di quel Grand Tour ottocentesco, momento irrinunciabile del programma di formazione dell’europeo colto e viaggiatore che in questo luogo poteva ritrovare l’immediato riscontro con i racconti e le descrizioni dei classici latini e greci.
L’escursione della zona flegrea aveva dei riti ben precisi. Essa iniziava con l’oscura, polverosa e rumorosa galleria chiamata Crypta neapolitana o grotta di Pozzuoli (2) accanto al sepolcro di Virgilio, ingresso ad un mondo nuovo fatto di vigneti, di aranceti, di piante esotiche, di una vegetazione straordinariamente rigogliosa dove si inserivano quasi magicamente i resti delle antiche civiltà greche e latine, i fumi e le polle sorgive delle acque termali che scaturivano dalla terra e dal mare, gli antichi vulcani ormai spenti i cui crateri andavano a formare laghi inquietanti, boschi rigogliosi, lunghe distese dall’aspetto lunare.
Un susseguirsi infinito di insenature, di rade, di calette, di rocce a picco e di promontori dolcemente declinanti, di spiagge assolate e di residenze estive che da Miseno si spingevano lungo tutto il golfo di Pozzuoli e di Napoli fino alla punta Campanella.
E su ogni cosa, su città e campagne, su case e castelli, su orti e arenili, l’ombra minacciosa ed al tempo stesso familiare di quelle terribili montagne di fuoco che con la loro forza devastante ed imprevedibile, con i loro boati sommessi, con il cupo brontolio con cui accompagnavano i moti ascendenti e discendenti della terra scandivano i tempi e la vita della popolazione locale.
Era questo, probabilmente, quello che colpiva maggiormente il visitatore: questa sorta di irrequietezza del suolo, questa forza indomita che sembrava sprigionarsi ovunque, quest’energia vitale e distruttiva al tempo stesso che attendeva solo di potersi risvegliare. Ovunque, i resti sparsi delle antiche rovine in parte sommersi lungo le insenature della costa (3), nonchè i segni recenti dell’eruzione di Monte Nuovo (4), che aveva stravolto il paesaggio spazzando via in pochi giorni una parte del lago di Lucrino e cancellato per sempre dalla geografia flegrea il piccolo paesino di Tripergole, sembravano ricordare al visitatore che dentro quel suolo, nelle viscere profonde della terra una volontà infernale e beffarda sfidava quotidianamente la stessa sopravvivenza dell’uomo e delle sue opere.
“… Nel pomeriggio una bella campagna uguale ci si schiuse dinazi; la nostra via correva spaziosa tra i campi di verde grano, simili ad un tappeto e già alto una buona spanna. Nei campi sono piantati filari di pioppi, sfoltiti per servire da sostegno alle viti. Così continua fin dentro Napoli: un suolo terso, deliziosamente soffice e ben lavorato, viti d’eccezionale altezza e robustezza, coi tralci fluttuanti di pioppo in pioppo a mo’ di reti. Alla nostra sinistra avevamo sempre il Vesuvio col suo poderoso fumacchio, e io gioivo tra me di poter finalmente contemplare quello straordinario spettacolo con i miei occhi. Il cielo era sempre più luminoso e alla fine il sole picchiava con forza sul nostro abitacolo mobile. Man mano che ci avvicinavamo a Napoli, l’atmosfera si faceva sempre più pura; ormai ci trovavamo davvero in un’altra terra. Le case dai tetti piatti ci annunziano la diversità del cielo, anche se all’interno non devono essere molto comode. Tutti sciamano per la strada, tutti siedono al sole finchè non cessa di splendere. Il napoletano è convinto di avere per sé il paradiso e si fa un’idea ben triste delle terre del settentrione (…)
Si dica o si racconti o dipinga quel che si vuole, ma qui ogni attesa è superata. Queste rive, golfi, insenature, il Vesuvio, la città con i suoi dintorni, i castelli, le ville! Al tramonto andammo a visitare la grotta di Posillipo, nel momento in cui dall’altro lato entravano i raggi del sole declinante. Siano perdonati tutti coloro che a Napoli escono di senno! (…)
Se nessun napoletano vuole andarsene dalla sua città, se i poeti celebrano in grandiose iperboli l’incanto di questi siti, non si può fargliene carico, vi fossero anche due o tre Vesuvi nelle vicinanze. Qui non si riesce davvero a rimpiangere Roma; confrontata con questa grande apertura di cielo la capitale del mondo nella bassura del Tevere appare come un vecchio convento in posizione sfavorevole” (5).
I Campi ardenti furono dunque celebrati ed ammirati in ogni secolo della nostra storia. Nell’antichità da Virgilio, Orazio, Stazio, Svetonio, Tacito, che ne immortalarono la bellezza dei luoghi e le vicende storiche. In epoca più recente dal Boccaccio che ne ricorda “le dilettevoli baie sopra li marini liti, del sito delli quali più bello nè più piacevoli ne cuopre alcuno il cielo” (6), dal Pontano e dal Sannazzaro (7) che ne cantarono il fascino della natura e del mito. Non ultimo dal D’annunzio, che durante il suo soggiorno napoletano visitò molte volte la zona flegrea:
“… Baia voluttuosa e il tumulo ingente che Enea
diede a Miseno e l’alta Cuma che udì gli ambigui
carmi fatali, e il lido lacustre che l’orme sostenne
d’Ercole dietro il gregge pingue di Gerione,
plaghe degli Immortali dilette.” (8)
Ma più di chiunque altro fu Virgilio il più celebre cantore di questi lidi.
Di nascita mantovana e residenza romana si lasciò soggiogare talmente dal fascino dei luoghi leggendari da trasferirsi lungo la costa flegrea rinunciando ai lustri della Roma dei Cesari dove egli possedeva case e terreni.
L’amore per questa terra che lo adottò e lo mitizzò come un mago ed un sacerdote più che come un letterato fu tale che egli la scelse come sua ultima dimora.
Da Virgilio agli antichi greci e romani il passo è breve.
Qui, storia, miti, leggende, si intrecciano in maniera indissolubile con la natura del posto. E’ questo il fascino maggiore che, dai primi segni della civiltà ellenica, ci è stato tramandato inalterato nelle migliaia di secoli trascorsi fino ai nostri giorni.
I Greci che vennero a fondare Kyme, Dicearchia, Neapolis (9), trovarono in questi fumi, in queste alte lingue di fuoco, in questa terra inquieta la giustificazione e l’ambientazione di molti loro miti.
La maggior parte dei racconti ambientati in questi campi ardenti riguardano tre figure: Eracle, l’eroe greco per eccellenza identificato poi dai Romani con Ercole; Odisseo (conosciuto anche come Ulisse); ed il troiano Enea, fondatore della stirpe romana.
Gli episodi legati alla figura di Ercole sono due: la Gigantomachia, ossia la lotta tra Zeus ed i Giganti e la costruzione della vie Herculanea, la diga artificiale tra il lago di Lucrino ed il mare, in occasione del suo passaggio con gli armenti di Gerione (10), decima delle dodici fatiche a cui l’eroe fu condannato.
Circa la Gigantomachia, la maggior parte degli autori ha voluto identificare Flegra, la località dove si svolse la mitica battaglia, col territorio cumano.
Secondo Diodoro Siculo, Ercole, “avendo al suo fianco gli Dei dell’Olimpo combattè contro i Giganti, li sconfisse e pose la terra in coltivazione”. Questi, erano esseri mostruosi che avevano tentato di deporre lo stesso Giove sovrapponendo montagne su montagne per poi lanciare dall’alto di quelle alture alberi, pietre e tizzoni ardenti contro il cielo:
“… E scagliavano pure contro quelli tali scogli, che parecchi di essi ricadendo sulla terra formavano alti monti, ed isole se piombavano nell’acqua con orrendo tonfo.” (Ovidio)
“Giove stesso sbigottito chiamò in soccorso gli altri Dei, e tanta battaglia fu guerreggiata sopra i Campi Flegrei.” (Omero)
Il racconto della battaglia dei Giganti è in realtà la descrizione di un’eruzione vulcanica. Gli esseri mostruosi ed altissimi che tentano la scalata verso il cielo gettando massi roventi e sputando fiamme sono in realtà le immagini drammatiche di violente ed estese eruzioni vulcaniche che in quell’epoca dovevano essere al culmine della loro attività.
Terra e mito in un connubio stretto dove l’uno giustifica l’altro e viceversa, come nella storia del gigante Tifeo che, sconfitto da Zeus, viene sepolto sotto il vulcano Epomeo nell’isola di Ischia, o quella del gigante Mimante che giace sotto la vicina Procida.
Il mito di Eracle fu talmente profondo e radicato nel territorio campano che numerose località della costa legarono il loro nome a quello dell’eroe. Basti ricordare Ercolano, di cui l’eroe è eponimo o la stessa Bacoli che deve il suo nome all’episodio degli armenti di Gerione.
Altro eroe greco legato ai Campi Flegrei è Odisseo meglio conosciuto con il nome latino di Ulisse.
Gli studiosi hanno ritenuto di poter individuare nei siti flegrei alcuni degli episodi narrati da Omero: così, l’isola delle Capre sarebbe Nisida; l’isola di Scheria, Ischia; l’evocazione dei morti e il vaticinio sarebbero ricollegabili alla zona dell’Averno; la leggenda del popolo dei Cimmeri ad alcune popolazioni della zona puteolana dedite all’estrazione mineraria.
E da Ulisse passiamo ad Enea, l’eroe virgiliano la cui storia si sovrappone in molti punti a quella omerica. Nei Campi Flegrei Virgilio volle ambientare l’intero VI libro della sua opera.
Il tempio di Apollo a Cuma, la leggenda di Dedalo, la Sibilla ed i suoi vaticini, il mondo dell’Ade e la porta degli inferi, trovarono nel poeta mantovano la loro definitiva consacrazione.
Ma, accanto alle leggende ed ai miti greci e romani anche piccoli pezzi d storia passarono attraverso i campi ardenti: Annibale, Cesare, Nerone, Agrippina, Paolo di Tarsia, legarono alcune loro vicende a questa terra.
(1) Con il nome di Campi Flegrei, nell’accezione greca del termine “campi ardenti”, si indicava l’intera Piana Campana. La prima fonte storica che faccia esplicito riferimento all’attività vulcanica della zona è quella di Diodoro Siculo (80-20 a.C.) il quale afferma che il nome era dovuto alla “montagna (il Vesuvio) che un tempo sputava fuoco, così come l’Etna in Sicilia”. (in L. Giacomelli e R. Scandone, “Campi Flegrei, Campania felix”).
(2) La crypta neapolitana o grotta di Pozzuoli sorgeva vicino l’antica chiesa di Santa Maria di Piedigrotta e metteva in comunicazione la zona di Mergellina con quella di Fuorigrotta. Nel passato era la via di comunicazione più rapida tra Neapolis e Puteoli.
(3) “Baia, vento dell’Ovest” (Percy Bysshe Shelley, in “English Prose and Poetry)
“Dai sogni svegliasti estivi l’azzurro Mediterraneo
là dove giace dal suon cullata delle onde cristalline
accanto ad un’isola di rappresa lava
e pietre vulcaniche il seno magnifico
di Baia e nel sogno vedesti antichi palazzi
e torri tremar entro il più azzurro luminoso del mare.
Ora tutto è coperto di sabbia e di alche azzurre:
ed è così delicata la sensazione che sfugge a riprodurla
anche nel sogno.”
(4) Nel settembre del 1538 un’incredibile eruzione vulcanica avvenuta secondo i racconti dell’epoca in una sola notte, sconvolse completamente l’assetto topografico dei Campi Flegrei. La nascita del nuovo monte modificò tutta la zona a cavallo tra il lago Lucrino e quello d’Averno.
(5) J.W.Goethe, “Viaggio in Italia”. Il viaggio in Italia fu predisposto e organizzato da Goethe con la precisione e le conoscenze di un uomo nel quale al sommo poeta si accompagnavano il naturalista e l’aspirante pittore. Nascosto sotto il nome di Möller egli descrisse il suo viaggio in una serie di lettere inviate all’amante Carlotta Von Stein e all’amico Herder, ma tenne altresì un “tagebuch”, pubblicato postumo dalla Società Goethiana, di Weimar. Da questo taccuino, dalle lettere e dai ricordi personali egli, quasi ottantenne, avendo rinunziato all’idea di una grande opera sull’Italia a lungo vagheggiata, scrisse il celebre “Viaggio in Italia”. Goethe, insieme al francese Stendhal è da considerarsi il maggiore tra i viaggiatori stranieri che visitarono tra il settecento e l’ottocento Napoli. A lui si devono alcune splendide pagine che difendono Napoli ed i suoi abitanti dalle calunniose dicerie correnti allora. (fonte Gino Doria, “Viaggiatori stranieri a Napoli”)
(6) Ed ancora su Baia, “Rime” di Boccaccio:
“Per certo, quando il ciel con lieto aspetto
Riguarda qua nella stagion novella,
Nulla contrada à ‘l mondo così bella
Ne dove più si prenda di diletto.
Quivi amor regna sanz’alcun sospetto,
O ‘l ciel che faccia singulare stella;
Venere credo poi venisse in quella,
Del mare uscendo, come in luogo eletto.
Quivi le piagge la marina e i rati
Son pien di donne e di leggiadri amanti,
E ciò che piace par vi si conceda.
Quivi son feste e dilettosi canti;
Quivi si mettono amorosi agguati,
Né mai senza gioir si leva preda”
(7) da “Arcadia”, Iacopo Sannazzaro
“O Cuma, o Baia, o fonti ameni e tepidi,
or non fia mai che alcun vi lodo o nomini,
che il mio cor di dolor non sudi e trepridi …”
(8) Gabriele D’annunzio, “Dalla certosa di San Martino”.
(10) Nell’antichità si riteneva che nel tempio di Apollo a Cuma fossero conservati i resti del cinghiale di Erimanto, la cui cattura, come quella degli armenti di Gerione, era contemplata nella celebre saga. Le fatiche di Ercole, nell’ordine, furono: la lotta con il leone di Nemea; l’uccisione dell’idra di Lerna; la cattura del cinghiale di Erimanto; la cattura della cerva di Cerinea; la caccia agli uccelli della palude di Stinfalo; la conquista del cinto di Ippolita; la pulitura delle stalle di Augia; la cattura del toro di Creta; la cattura delle cavalle di Diomede; la cattura dei buoi di Gerione; la conquista dei pomi d’oro delle Esperidi; la cattura di Cerbero.