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Giuseppe Porcaro – il Golfo agli occhi dei viaggiatori


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in “Napoli – il suo mare e il porto visti da viaggiatori illustri” Fausto Fiorentino Editore – Napoli 1964

Per il mare e per il porto di Napoli, anima, vita e fisionomia si sono sempre fuse in una gamma luminosa e indissolubile di suoni e di colori, di luci e di stupore, di fantasia e di spettacolo, di vitalità, tormento, giubilo.
I volti del porto e del mare di Napoli hanno avuto, ed hanno, il volto della vita, non quello della morte; hanno avuto ed hanno il voluttuoso mistero della luce e della dolcezza che ha sedotto la fantasia ed il cuore di grandi artisti, di viaggiatori illustri, di letterati famosi. Il Golfo di Napoli, in tutta la sua ampiezza, visto nelle sere estive dai viaggiatori stranieri o nazionali, nei secoli passati, quando al calar del maestrale le grandi vele gialle dei trabaccoli e delle golette gemevano e schioccavano sotto gli ultimi soffi, dovè certamente avere un suo aspetto ineguagliabile ed unincanto speciale, se è vero, come è vero, che più di un pennello di atista ne immortalò sulla tela la divina bellezza, come ne fanno fede i fascinosi guazzi conservati nelle pinacoteche e nei musei. «In questa coppa preziosa del Golfo di Napoli, abbellita da tutte le seduzioni della natura, si svolsero – esclama Giovanni Tescione – nella favola dei secoli e nella risonanza di un’eterna armonia, dalla poesia dell’Odissea fino all’egloga degli umanisti, fino alla musica delle canzoni napoletane, nell’alternativa e nella fusione delle razze, le leggende del più bello dei mari mediterranei».
Ecco perchè Inglesi, Tedeschi, Spagnuoli, Francesi, Fiamminghi e tanti di altre nazionalità venivano in Campania e di proposito a Napoli per ammirare la rupestre, saluberrima, climatologica e luminosa Sorrento, odorosa e pingue di aranci; per bearsi alla poetica visione di Ischia dai mormoranti, ombriferi pini, eternamente verdi e leggiadri; per ritrovare il sorriso e la salute di fronte al sorriso azzurro del mare di Capri, l’isola imperiale, della serenità e dei sogni, degli amori e del sole; per esaltarsi in impeti di poesia di fronte ai riflessi inimitabili del mare verde e delle verdi alture di Procida, la patriarcale, la semplice, la umana, la più marinara delle isole, perchè terra di pescatori e di naviganti, nutrice di Enea, secondo una graziosa leggenda; per risvegliare e fecondare le menti di fronte a Baia, l’aristocratica, dove resti di incantevoli ville e di giganteschi templi pagani (di Venere genitrice, di Mercurio, di Diana lucifera) furono e sono, in questo sito, incorniciati in una dolcezz panoramica che ispira una riposante melanconia, quale forse sorrise a Virgilio, intento a tessere la trama della sua Epopea: «Nullus in orbe locus Baiis praelucet amoenis». E difatti niente è più caro, più seducente di questo delizioso soggiorno, già preferito dai grandi romani, da Silla a Cesare, da Mario a Bruto, da Antonio a Tiberio, da Caligola a Nerone. Fu questa la terra classica del lusso e del piacere e l’occhio vi spazia meravigliato: da una parte le coste salenti del Monte Gauro e di una serie di colline iridescenti e dall’altra la suggestione di un mare frastagliatissimo, di un mare bellissimo di colori e di aspetti, che, carezzando gli occhi, fanno cessare il moderno fermento del cervello, che «si discioglie, qui – scrive il De Magistris -, in una languida e soddisfatta beatitudine, come di chi contempla una magica visione».
Ecco perchè, da lontanissimi paesi, innumeri viaggiatori venivano a Napoli: per scoprire, indagare e studiare Cuma, la greca, sacra alla Sibilla, ispirata da Apollo. La esistenza di questa località marina costituì certamente un’armonia di potenza, di bellazza, di gloria. Culla della più antica civiltà italiana, Cuma rappresentò, nei secoli oscuri, un faro di luce vivissima, che si proiettava fino nel Lazio, al nord, e fino a Pesto, a sud.
«Tutta l’immensa e rigogliosa conca, fremente di vita agricola, che si distende dalle pendici del Monte Gauro al mare – scrive il De Magistris – costituiva il massimo emporio culturale, commerciale, marittimo della più remota antichità; tutti i Campi Flegrei, fino al Vomero, rappresentavano il suo retroterra ferace, abitato dai favolosi Giganti Leuternii, preausonici e preopicii. E chi sa se, nella notte dei tempi, questa Terra popolata di vulcani non dovette apparire interamente di fuoco ai primi navigatori greci, donde il nome di Itlia, da aitalion, ardente, bruciante, arso, che gode il calore del sole».
La spiaggia cumana contro cui si infrange il mare lucente di madreperla e di oro, dove furono combattute memorabili battaglie navali – prima quella dei Cumani contro gli Etruschi soccombenti – si congiunge alla piana verdeggiante di Licola, che si stende sul mare di Mondragone, poco lungi dall’incanto, sacro al passato, del Tempio di Apollo e della Grotta della Sibilla.
Ecco perchè i viaggiatori di ogni tempo vennero qui: per acquistare il senso del culto, della civiltà, delle bellezze e delle armonie pagane od orientali nella vulcanica Pozzuoli, pregna di acque mefitiche ma salutari, maestosa di classiche rovine, antichissima Dicerachia, col suo Anfiteatro maestoso, sul golfo che vide all’ancora la massima flotta dell’Urbe, dominatrice incontrastata del «Mare Nostrum», sul dolcissimo lido sul quale spasimò la più sfrenata lussuria, che ribollì nei corpi e nei cuori nei secoli della decadenza imperiale. E vennero i viaggiatori di ogni paese e di ogni credo politico e religioso, qui, per osservare la Pompei di un tempo, provinciale e pettegola, o per gdere della dolce Possilipo, risuonante della voce melodiosa del mago Virgilio, dalla cui tomba gloriosa trassero motivi di vita e di contemplazione le generazione di due millenni ed a cui si portarono le masse pellegrine per onorare, se non adorare il fascinoso, mirabile, divino poeta, dinanzi al riposante panorama di Partenope, che, contemplato, riesce ancora oggi a purificare la nostra vita di tutte le impurità e ad addolcire tutti i dissapori.
E vennero, infine, gli illustri visitatori per scorazzare in lungo e in largo per tante e tante altre ridenti località rivierasche che gli ultimi raggi infuocati del sole facevano apparire come fiabesche, indorate, vive, sulla roccia viva dei frangenti, soto un cielo quasi sempre roseo, svanite in una gamma iridescente di viola e di celeste, circonfuse d’incanti nella penombra dei crepuscoli, tra i frutteti e il mare, tra gli agrumeti e i porti.
Oggi ancora, infatti, si faccia caso, il sole, lo stesso, eterno, si accende e si spegne sul porto e sul mare di Napoli con il medesimo inusitato splendore, con lo stesso divino incantesimo, con la stessa magia di toni e di colori; brillano le stelle si sempre; beccheggiano navi piccole e grandi sotto la maretta addormentata e gemono e svettano i pennoni dei moderni transatlantici, come un tempo gemevano e svettavano quelli degli agili sciabecchi e i terzaroli delle polacche o dei brigantini e le vele quadre dei galeoni. Ancora oggi, a distanza di secoli, il golfo di Napoli è una profondità arcana, variegata di luce e di verde, di scogli e di isole boscose, di spume bianche e scroscianti, che inseguono come una musica dolce il navigante e lo confortano nel desolato silenzio di mari lontani.
Anche se la Storia ha dimostrato ai turisti moderni come la bellezza del panorama di Napoli, che essi, rapiti ammirano, non formò mai la gioia, la felicità e la ricchezza dei napoletani, ma rappresentò spesso la loro infelicità, nondimeno resta il fatto che Napoli, il suo scalo ed il suo mare, furono preda agognata di duri dominatori – scrive il Doria – e meta seducente di uomini delle più svariate razze: greca, romana, bizantina, gotica, saracena, balcanica, castigliana, gallica, tedesca, e approdo di viaggiatori dei più svariati tipi e ceti sociali: letterati, umanisti, poeti, pittori, politici, militari, filosofi, banchieri, scienziati, tutti concordemente entusiasti della città, delle sue antichità, della voluttuosa curva del suo Golfo, dell’incanto perenne del suo cielo e del suo mare, della solidità, attività ed importanza del suo porto, della dolcezza del suo clima, della bontà del suo popolo. A centinaia, infatti, si contano i viaggiatori di tutto il mondo che hanno scritto (a volte intorpiditi da una facile seduzione) delle bellezze di Napoli, cadendo in non pochi errori di valutazione, perpetuando dicerie e leggende, concorrendo a tramandare il falso concetto del napoletano indolente e sognatore, nemico del movimento e dello sforzo, ozioso, vagabondo e cantatore; contaminando la storia con la favola, la storia con gli allettamenti dello scenario, coinvolgendo i fenomeni astrali e climatologici con i costumi e gli usi del popolo partenopeo.

Il mondo fantastico che è il mare ha colpito sempre la fantasia degli uomini, i quali sin dalla più remota antichità lo hanno popolato di mostri, di fantasmi, di strane e magnifiche divinità, di sirene, di leggende ingenue e paurose. Ecco perchè per l’illustre viaggiatore, l’incantesimo del mare di Napoli, mare ricco di amore, di tradizioni, di bellezze, di leggende, di storia, di gloria, di motivi folcloristici e religiosi suscitava un interesse particolare, sia che venisse osservato nell’arco del porto, sia che venisse ammirato e scrutato nelle cale o grotte di Posillipo, della «Gaiola», di Marechiaro, sia che suscitasse gridi di ammirazione e palpiti e sospiri coi verdi riflessi delle acque di Sorrento, di Ischia, di Capri, o con le iridescenti sinuosità di Amalfi e di Miseno.
Il mare di Napoli, per i viaggiatori, era tutto un sogno di colori, tripudianti, che si sviluppavano in tutte le sfumature di azzurro, dal cobalto al grigio argenteo, dall’opale allo smeraldo, sempre in una festa di luci inebrianti. Le acque tersissime, dai fondali trasparenti, svelavano ad occhio nudo le profondità misteriose della vita sottomarina con sue prospettive fantastiche di rocce, anfratti, dirupi, alghe, piante marine, crostacei, molluschi, echinoderma e di pesci di ogni specie, dalle sfumature di viola, di perla, di argento tra le più meravigliose.
Etnografia, etnofonia, idrografia e orografia deliziose e doviziose, il mito e la leggenda del pescatore «Mergillino» e delle «Sirene»; l’oleografia del paesaggio, l’archeologia sottomarina, il clima, il folclore e le canzoni innomorarono i viaggiatori, specie del Sette-ottocento, a tal punto che ognuno di essi ha lasciato scritto qualche pensiero, e poesie, e impressioni del dolce e salutare soggiorno partenopeo. Impressioni, immagini e poesie nelle quali gli illustri viaggiatori stemperarono il loro entusiasmo per le bellezze di Napoli, per le attrattive di questo mare, il quale, nella divina armonia di bleu sempre cangiante e sempre bello, faceva scrivere al Lamartine, in una lettera ad un amico, la significativa frase: «… del quale tu non vedrai al mondo nulla di più sublime», e faceva più tardi mirabilmente esclamare Matilde Serao: «Il Signore Iddio dando il mare ai napoletani ha saputo quel che faceva».
Oggi non è molto agevole per un napoletano moderno immaginare gli antichi, suggestivi profili della sua città, e del suo mare e del suo porto, così come apparvero nel lontanissimo passato, e via via attraverso i secoli, agli occhi di mille e mille viaggiatori illustri (fra cui moltissimi pittori, paesaggisti, impressionisti olandesi, francesi, tedeschi, ecc.), alcuni dei quali, anzi ritennero, come gli Hamilton, persino opportuno e piacevole fissare qui uno loro più o meno stabile dimora, allo scopo di meglio cogliere e studiare, nei minimi particolai, gli aspetti più salienti, più misteriosi e deliziosi di questa metropoli nella sua vita mitologica, storica, classica, archeologica, letteraria, folcloristica, pittoresca; allo scopo di meglio conoscere e cantare la sua fisionomia così come la cantarono Virgilio e Strabone, Stazio e Leopardi, Axel Munthe e Dickens.
Le sorgenti calde e naturali,delle quali la costa napoletana dispone in tanta grande varietà, da Agnano, Pozzuoli, Lucrino, fino a Baia, furono attrazione non solo dei romani, ma bensì delle generazioni successive.
Il Lago d’Averno, nella sua cerchia di nere e dense foreste, con la sua ideale forma di cratere e con i gas che esalavano dal suo imo tanto che gli uccelli non potevano sorvolarlo, accese la fantasia di uno Spallanzani.
Lo spettacolo della natura, da Pozzuoli a Nisida, nido intrecciato sulle onde; le montagne sorrentine, la magica Capri con canto delle «Sirene»; le glorie di Baia e di Lucullo; le passeggiate per i «Campi Elisi» e mille e mille altri incantesimi attirarono schiere immense di viaggiatori nella «Campania felix».
I libri di viaggi in Italia furono molto in voga nella seconda metà del settecento e per tutto il primo ottocento. Difatti, era quasi di moda per molti illustri viaggiatori dell’epoca, specie stranieri, lo scrivere, a volte sotto forma di lettere, il resoconto di un viaggio in qualche parte d’Italia.
Essi viaggiatori, venivano in Italia, ed a Napoli, quasi sempre con alcune «idee fisse», di gusto preromantico e romantico, da cui quasi nessuno prescindeva, perchè erano nell’aria se non nello spirito del tempo.
A leggerli tutti, questi libri di viaggi, ci si trova dinanzi ad una enorme, attraente letteratura, pregna di impressioni e descrizioni fresche, nitide; di aneddoti, di particolari storicamente utili, pur se in essi le ripetizioni, i giudizi affrettati, convenzionali o errati, appaiono inevitabili, «dato il genere che non richiedeva l’impegno di un’opera originale e seriamente pensata». Essi, infatti, gli illustri descrittori, presi dall’entusiasmo turistico per le nostre rovine archeologiche e per le bellezze panoramiche di Napoli e dintorni, cadevano quasi tutti in una facile anche se nobile retorica, dimeticando spesso la loro sensibilità storica, che pur in molti di essi non difettava, per soffermare voluttuosamente la penna sugli aspetti pittoresci e caratteristici di Napoli e dei Napoletani. Napoli era per loro la residenza ambita, il pellegrinaggio appassionato. Al pari che sulla Spagna, i romantici si lanciarono su Napoli come su un terreno vergine, ricco di sensazioni, di colori, di suoni, di rumori. Il movimento dei viaggiatori-scrittori e dei viaggiatori-artisti, anche nei tempi in cui la polizia teneva gli occhi bene aperti sugli stranieri, fu assai intenso per tutto il secolo XIX e diede luogo ad una letteratura ricchissima. Gli usi, i costumi, le danze e i canti popolari, la vita dei pescatori e dei contadini, le fogge e i gridi dei venditori ambulanti, le feste religiose e profane, il paesaggio incantevole, tutto fu studiato e descrito da una serie infinita di libri, di articoli, di quadri, di disegni, dei quali esempio cospicuo e oggi diventato pezzo da collezione è il famoso libro del De Bucard, illustrato dal Palizzi e da altri.
crive il Doria: «O bella o brutta, o grande o piccola che fosse Napoli, durante tutto il periodo spagnuolo, rimase sempre una città di provincia, con la sua vita particolaristica attaccatissima al patrimonio delle antiche tradizioni, con rapporti assai scarsi con l’estero, compresa la Spagna. Il regno indipendente, però, sollevandola dal torpore, la mise al livello delle grandi capitali, come Parigi, Madrid, Londra, Vienna; ne ringiovanì, con le grandi opere del primo Borbone, l’aspetto esteriore; le diede un nuovo fremito di vita, una più grande gioia di vivere e progredire. I napoletani presero a viaggiare, a osservare e notare, a introdurre in patria modi e mode degli altri paese; e molti stranieri, per converso, venivano a Napoli, vi si fermavano per la bellezza dei luoghi e per la curiosità della vita, osservavano e notavano a loro volta, scrivevao le loro impressioni e le diffondevano in tutto il mondo. Italiani pariginizzati, come il marchese Caracciolo e l’abate Galiani; inglesi napoletanizzati, come William Hamilton; pittori tedeschi impegnati dalla corte, come la Kauffmann, il Mengs, gli Hackert e l’amico di Goethe, il Tischbein, succeduto a Giuseppe Bonito nella direzione dell’Accademia; avventurieri come il Casanova, il conte Gorani e Angelo Goudar; diplomatici e militari, archeologi e disegnatori attirati dagli scavi di Ercolano, di Pompei e di Pesto; e lo Swinburne, lo Sharp, l’Addison; e il presidente de Brosses, il presidente Montesquieu, l’abate di Saint-Non; e il Misson, il Herder, il Volkmann, il Cochin, il Bjornsthal, il Lalade, il Duclos, il Dupaty e mille altri; dalla Reggia, dalle ambasciate, dalle accademie, dalle biblioteche e dai musei, dall’albergo delle Crocelle o dalla locanda del signor Moriconi, che albergò Goethe, annodavano infiniti legami di simpatie personali, che spesso diventavano simpatie nazionali, di cultura, di interessi pratici, di eleganze e di costumi, di pensiero religioso persino».
Questo lungo passo de Doria serve a sottolineare che l’europeismo ed il cosmopolismo di Napoli ebbe il suo inizio proprio ai principi del XVIII secolo, anche se si sviluppò poi compiutamente soltanto nella seconda metà del detto secolo.
Mentre da una parte grandi viaggiatori si spingono oltre le Indie, altri, non meno audaci, si danno alla scoperta di paesi che, benchè posti alle porte della stessa Francia e della stessa Germania, rimangono o ancora ignorati o assai poco noti. Per quanto riguarda l’Italia non vi è francese o tedesco o inglese che si rispetti che non faccia il suo viaggio nella nostra penisola, attratto dal prestigio di una grande civiltà, dalle bellezze dei luoghi, dalle grandiose opere d’arte. E nasce così, fra il 1670 e il 1750 e oltre, tutta una ricca letteratura di viaggi sulla penisola, specie da parte di viaggiatori francesi; letteratura che va dalle lettere galanti alle semplici guide turistiche, dalle osservazioni sui governi e sul commercio a quelle sugli usi e costumi.
Scrive Michele Prisco, su “Il Mattino” del 14 novembre 1962: «A cominciare dalla seconda metà del Settecento e per tutto l’Ottocento, i libri di viaggio in Italia furono molto in voga: ne derivò una letteratura particolare, nella quale si cimentarono semplici viaggiatori, osservatori, giornalisti e scrittori, ma fra questi ci sono anche nomi come quelli di Stendhal, di Goethe, di Chateaubriand, di Madame de Staël, e da tutti questi libri si possono ricavare inpressioni, particolari e notizie storicamente utili e interessanti che ci aiutano a ricostruire quel tempo e a darci una immagine di quegli anni. E anche se molto spesso il luogo comune, l’idea fissa, il mito libresco e romantico del sud solare ha la meglio in queste relazioni, pure da quelle letture ci è possibile cogliere, di là dall’ammirazione o, spesso, dalla polemiche che guida la mano di chi scrive, gli aspetti passati di una realtà che in parte continua ad esistere e nella quale agiamo».
Luigi Parpagliolo, nella sua opera “Italia”, vol. 3°, allorchè tratta della Campania, così si esprime: «L’Italia fu sempre meta di pellegrinaggi stranieri, anche quando il superare le Alpi e il percorrere la penisola era impresa dispendiosa e piena di difficoltà: le gloriose memorie storiche, gli insigni monumenti, i grandi capolavori dell’arte, le bellezze della natura, il clima mitissimo sono stati in ogni tempo il richiamo più seducente dei ricchi, degli studiosi, degli artisti, degli archeologi, del fior fiore del censo e dell’intellettualità. Molti fra costoro vollero che le loro impressioni non andassero perdute; e in forma di lettere e di diarii, e spesso in ampie monografie, ci tramandarono numerosi volumi, nei quali le migliori attrattive del nostro paese appariscono studiate e descrite, ora con profondo intuito, ora con superficialità deplorevole ora in base a preconcetti e pregiudizi che colorirono in falso talvolta anche le buone intenzioni. I lor autori giungevano in Italia, superando gravi disagi, e la percorrevano in diligenza o a cavallo incontrando non lievi strapazzi: avevano, quindi, bisogno di lunghe soste, che permettevano loro la conoscenza e talvolta lo studio della vita italiana, non solo attraverso la diretta personale osservazioni, ma anche mediante i rapporti, facilmente stretti, coi migliori e più rappresentativi personaggi dei luoghi dove si fermavano. Se la loro mente non era offuscata da preconcetti, talvolta anche confessionali, se nessuna ragione politica avevano per denigrare o per esagerare vizi e difetti che cadevano sotto i loro occhi, se il loro intuito era penetrante, certo codesti loro “Viaggi”, in cui il fatto storico si avvicenda con l’aneddoto gustoso, e la descrizione tanto più viva quanto più immediata si arricchisce di particolari da tempo scomparsi e di notizie su uomini e cose, che altrimenti si sarebbero perdute, sono fonti preziosissime di diletto e di istruzione».
Il 6 maggio 1898, Alessandro Chiappelli, in una conferenza tenuta nel Circolo Filologico in Napoli, dal titolo “Napoli nei canti dei poeti stranieri”, così esordiva: «A chiunque ascolti o legga i giudizi dei grandi scrittori stranieri sul proprio paese par quasi di udire la sentenza anticipata della storia, o, come disse un acuto critico francese, il giudizio di una posterità vivente».
Fu, per il Chiappelli, il tedesco Goethe a gittare il primo seme di tutta una fiorita lirica straniera che germinò su questi aprichi lidi: fu il Goethe che aprì la via ai canti che ancora oggi aleggiano sulle nostre marine, da quelli di Leopoldo Schefer a quelli di Anastasio Grun, da quelli di Federico Halma a quelli di Emanuele Geibel. Fu il Goethe che chiamò dietro di sè minori scrittori e poeti, ma pur grandi, che continuarono il pellegrinaggio sprirituale al di qua delle Alpi.
Annota il Chiappelli: «Era del resto il tempo in cui il genio nordico, specie in Germania, chiedeva al tepore dei bei soli latini la maturanza dei suoi frutti, e ai paesi, ove l’arte fiorì, l’educazione delle proprie virtù creatrici, e in Italia i cantori e scrittori stranieri venivano attratti, come disse lo Schlegel, quasi verso una patria perduta nelle lontananze dei tempi e delle memorie, e il “Viaggio a Napoli”, sotto la guida del Goethe divenne una moda».
Effettivamente, molti illustri viaggiatori, che pur visitarono l’Italia, o non vennero a Napoli, o se vi giunsero si lasciarono fuorviare da tutt’altre occupazioni e non posero mente a descrivere le bellezze paesaggistische, dediti più alle ricerche sugli usi e i costumi, allo studio archeologico e mineralogico, lasciandosi attrarre adalla vita mondana, dal fasto delle corti e dei teatri, anzichè dal fascino della natura.