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Il “Grand Tour” e il Neoclassicismo


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Nel 1670 per la prima volta comparve la definizione di “Grand Tour”.
Richard Lassels nella sua guida “The voyage of Italy” raccolse le sue osservazioni fatte durante i suoi cinque viaggi in Italia.

Ma fu nel Settecento che tra le aristocrazie di tutta Europa nacque una irrefrenabile moda per l’antico, promossa soprattutto dai Borbone, in particolare modo da Carlo III, grazie alle incredibili scoperte delle rovine romane di Ercolano nel 1738 e Pompei nel 1748.

Le tappe obbligatorie erano Venezia, Roma, Firenze.
Ma soprattutto Napoli, terza metropoli d’Europa, divenne una tappa obbligata del Grand Tour.

Il Grand Tour era un viaggio, a cavallo o in carrozza, lungo e avventuroso per l’Europa che durava intere settimane, mesi o anni.
Veniva normalmente intrapreso da ricchi giovani dell’aristocrazia europea ed era in genere destinato a migliorare il loro sapere.

I Campi Flegrei, inoltre, offrivano la possibiltà di visitare sia siti archeologici che fenomeni naturali.
Tali luoghi rispecchiavano la corrente romantica che nasceva in Europa: paesaggi rurali, rovine vinte dalla natura (fatta di bradisismo, eruzioni, solfatare e terremoti) ma intrise della storia di una civiltà passata.

Nei templi di Paestum e di Sicilia venne riscoperto il gusto per la “grecità”.

E fino in Sicilia ci si avventurava per studiare l’arte greca e quella orientale nonchè barocca di cui l’isola era custode.

I viaggiatori vennero, così, a contatto con il Neoclassicismo.
E, mentre a Napoli venivano tradotte l’Iliade, da Vincenzo Monti, e l’Odissea, da Ippolito Pindemonte, l’architettura degli edifici rifletté ampiamente l’influenza esercitata dalle scoperte archeologiche.
Grazie allo studio, dal vero, di reperti antichi, il Neoclassicismo si diffuse in Europa grazie alla generazione degli artisti che qui venivano a studiare l’arte ellenica senza dover affrontare il viaggio in Grecia, all’epoca dominio turco.

Durante il Tour i giovani passavano il loro tempo facendo giri turistici e visitando le storiche rovine, studiando e, secondo le loro possibilità, acquistando opere d’arte e cimeli.
Per soddisfare la voglia di riportare a casa un ricordo delle emozioni provate durate questo viaggio, nacque la pittura da “Grand Tour”.

Nel corso del secolo XVIII il fenomeno del Grand Tour assunse proporzioni maggiori coinvolgendo un sempre più elevato numero di viaggiatori e alla curiosità intellettuale si aggiunse la passione antiquaria, a cui seguì l’interesse per la natura e per i costumi popolari.

Ma la rivoluzione francese e Napoleone fecero ridurre il fenomeno. Molti, infatti, sconsigliarono, soprattutto ai rampolli inglesi, di intraprendere avventurosi viaggi sul continente visti i cattivi rapporti Francia/Inghilterra.

Grazie ai numerosi visitatori stranieri impegnati nel Grand Tour, a Napoli nacque la “scuola pittorica di Posillipo” e molti artisti dell’epoca, come Anton Sminck van Pitloo e Giacinto Gigante, a contatto con la natura partenopea, realizzarono grandi e piccoli quadri (“Gouache”, acquarelli e oli), dipinti a scopo talvolta puramente commerciale, destinati ai forestieri.

Nacque, così, un diffuso commercio che, attraverso i viaggiatori, raggiunse tutto il nord Europa.
Ed è grazie a questo commercio che a noi sono pervenute molte testimonianze della nostra città.