Ξ Gennaro Agrillo » Citazioni » Ferdinando Russo » ‘O “Luciano” d’ ‘o rre
PREFAZIONE
I nottambuli napoletani ricorderanno certo una bettola che ora più non esiste, intitolata al Progresso, a mezzo la via Nardones. Colà convenivano, fino a una diecina o a una quindicina d’anni or sono, un po’ tutti gli appassionati delle ombre o i costretti, dal genere del loro lavoro e dei loro vizii, a vegliare mentre gli altri dormivano. Giornalisti, artisti, scrittori, giocatori, comici, biscazzieri, barattieri, fannulloni, mezzani d’usura, affollavano nelle ore antelucane il locale, in cui don Ciccio o russo, il padrone, passeggiava sopra pensieri o discorreva con gli assidui, o troneggiava dal suo banco dando ordini o consigliando di bere quella tal qualità di Gragnano o quella tal altra di Aleatico. I tipi si seguivano ai tipi, e si mescolavano, e si affratellavano, mentre, nell’ire e venire di gente che si fermava, si aggruppava un po’ attorno a tutti i tavoli, o s’indugiava a centellinare in piedi il bicchierino, Peppino il garzone – discendente dai magnanimi lombi del famoso Monzù Testa, – badava a servir gli avventori, con le braccia in alto e le mani cariche di stoviglie, come un acrobata o un equilibrista, senza far cadere una sola gocciola di unto; e, alle assidue richieste dei ghiottoni di frutti di mare, chiamava a gran voce l’ostricaro.
Era costui un vecchio marinaio di Santa Lucia, alto, tarchiato, massiccio, color del bronzo, con un paio di spalle che parevano sbozzate dall’accetta, un viso sbarbato, quadrato, ampio, che ricordava singolarmente quello del gran busto di Vespasiano, una caratteristica bocca larga avente agli angoli i segni d’una perenne amarezza. Pochi capelli grigi gli contornavano la fronte e le tempie; e le mani, enormi, gonfie, rosse e come tumefatte, si stendevano, tutte screpolate dalla salsedine, sui tavoli, per deporre le spaselle con le ostriche, umide, fragranti ed ornate del trasparente smeraldo dell’alghe. Ai lobi delle ampie orecchie, gli brillavano due cerchietti d’ oro.
Allorché la sua vantaggiosa figura appariva nel pandemonio, fra l’acciottolio dei piatti e il tintinnar delle bottiglie e dei bicchieri, era un coro allegro di richiami e di motteggi, innanzi ai quali egli rimaneva impassibile finché non perdeva la pazienza. – “Luigi! Luigi! Vieni qua, Luigi!… Dacci una bella dozzina di ostriche!… E parlaci un po’ di Ferdinando II…„
Al nome del suo Re, il luciano, commosso, prestamente si sberrettava. – “Coppola nterra!„ egli diceva, fissando col suo occhio grifagno le comitive burlevoli. – “Coppola e denocchie!… Chillo era ‘o Rre!… „ Un coro di scherno l’interrompeva:
– Ma come? Sta zitto!… Che dici!… E Garibaldi?… Dove lo metti, Garibaldi?
A quest’altro nome, la faccia di Luigi l’ostricaro pigliava a un tratto una espressione terribile, fra l’odio, il disprezzo, il dolore, il desiderio ferino di distruzione.
Se aveva ancora il berretto in mano, lo rimetteva in testa rapidamente, con rabbia, e lo calcava fin su le orecchie. Poi, voltava le spalle e si allontanava borbottando dal tavolo dei motteggiatori, e non c’era più verso di indurlo ad aprire per essi le ostriche. Talvolta, quando non aveva troppo bisogno di danaro , giungeva fino a dichiarare di non voler dare più ostriche; e, bestemmiando fra i denti, infilava la porta, raccoglieva sotto il braccio, una nell’altra, le spaselle, sollevava con la polputa mano il gran cato di legno, e via, a grandi passi, verso le ombre della piazza San Ferdinando che attraversava ciondolando, per raggiungere la discesa della sua vecchia Santa Lucia. Quando andai a chiedere di lui, ora è qualche mese, seppi quel che supponevo. Era morto da circa una diecina d’anni. Né potetti sapere se avesse, e dove, lasciato famiglia o figliuoli.
Io ero fra gli avventori suoi simpatici perché non lo tormentavo mai, non lesinavo sul prezzo delle ostriche, ed esprimevo, contro i volgari motteggiatori, qualche simpatia per Ferdinando II. Fin da allora mi frullava per la mente il pensiero di raccogliere da labbra borboniche popolane il racconto dell’ultimo viaggio e della morte del Re di Napoli per farne oggetto di un mio studio e dare il tipo dell’ultimo luciano fedele ed esaltato, come erano tutti della singolarissima tribù marinara, ai tempi in cui Re Ferdinando ne conosceva uno per uno i componenti, da quelli che formavano gli equipaggi del Saetta, del Tancredi, del Delfino, del Messaggero, del Fulminante, fino ai suoi sommozzatori ed ai suoi pescatori. Aveva il Re una gran fede nella loro fede, e scherzava con essi familiarmente; e chi ha letto “La fine d’un Regno” del de Cesare, e le altre storie del Nisco, del Farneraro, del de Sivo, del Bernardini, sa di quali favori godessero i luciani Raffaele e Vincenzo Criscuolo, padre e figlio, e come fosse specialmente popolare il primo, don Rafele ‘a lancia, e con quanta brusca dimestichezza trattasse talvolta i rampolli reali.
Nella sua opera Raffaele de Cesare dice che i luciani non accompagnarono il Re in quell’ultimo viaggio; Luigi l’ostricaro affermava che solo quattro, e dei più fidi, segretamente lo seguirono dal primo giorno, e che egli era fra costoro. Ed aggiungeva – come raccolgo dal mio taccuino di appunti, – che, mentre il Re, con la famiglia e gli aiutanti di campo, partiva in carrozza da Caserta alla volta di Manfredonia, salpava per Trieste il Fulminante con a bordo Raffaele Criscuolo Ia lancia e i quattordici marinai suoi dipendenti che formavano l’equipaggio di essa; e contemporaneamente muoveva per Manfredonia il Tancredi con a bordo Vincenzo Criscuolo, avente ai suoi ordini i quattordici marinai dell’equipaggio della seconda lancia, la quale, come la prima, batteva, così allora dicevasi, padiglione reale.
Il 1.° febbraio 1859 il Tancredi, che non aveva trovato a Manfredonia il Re perché questi si era ammalato per via, ripiegò a Bari, ove il Re era in grave stato, e vi aspettò il Fulminante che aveva a bordo la principessa Maria Sofia. I marinai delle due lance erano, in maggior numero, luciani; se ne contavan pochi di Sorrento, qualcuno era di Porto, qualche altro di Castellammare.
Allorché fu deciso di ricondurre il Re a Caserta, egli venne issato, com’è detto anche nell’opera del de Cesare, con tutto il suo letto, a bordo del Fulminante; ed i suoi fedeli marinai presero con grande ardore a vegliarlo e ad accudirlo. Gli da-vano il bagno, lo sostenevano a braccia come un fanciullo, gli cambiavano le lenzuola ed i guanciali, cercavano di alleviargli in ogni modo le orribili pene. E piangevano. E il Re diceva loro: – Grazie, figliuoli! Raccomandatemi alla Madonna della Catena, e pregherò per voi…
Dalla Villa della Favorita a Portici, nelle cui acque il Fulminante gettò l’ancora, gli stessi marinai condussero il Re alla Stazione e lo adagiarono nel vagone che dovea trasferirlo a Caserta. Quattro di essi soltanto – e forse quelli che lo scortarono nel viaggio – presero posto nel medesimo vagone. Di tre di costoro si sa il nome: Francesco Raffaele di Lipari, Carlo Corallino di Porto , Salvatore Santaniello di Castellammare di Stabia. Colui, che a mezzo dell’amico comm. Franz Lecaldano mi forniva tali notizie, si chiama Giosuè Servino, fu tra i primi marinai del Re, ed ora conta 75 anni. Non ricordava il nome del quarto. Ma non sarebbe strano ritenere che possa trattarsi proprio di quel Luigi l’ostricaro del quale più innanzi riproduco fedelmente in versi il racconto. Quando mi venne la prima idea di intervistarlo non pensai alla utilità di segnarne il cognome. E ora me ne dolgo con me stesso.
Questo superstite Servino, che faceva, con Raffaele Criscuolo, il servizio quotidiano postale pel Re, tra Caserta e Napoli, racconta pure che il vecchio duca di Serracapriola, recatosi a rilevare a Trieste la principessa Maria Sofia, ebbe in dono dalla Imperatrice d’Austria un ritratto; e lo affidò al Servino. In quel periodo di trambusti non vi pensò più; ma il Servino, che aveva gelosamente custodito quel ritratto, dopo qualche tempo si recò dal duca, al palazzo di costui alla Riviera di Ghiaia, e glielo consegnò. E il duca gli fé dono di dieci piastre.
Molti punti del racconto di Luigi l’ostricaro – del quale alcune frasi caratteristiche segnai fin da allora nel mio taccuino, – corrispondono a particolari consacrati nei volumi del de Cesare non solo, ma in quelli del Nisco, del de Sivo, del Bernardini, del di Martino, (recentissime Ricordanze storico-morali), ed ai ricordi dell’ex marinaio Servino. Il quale faceva notare, inoltre, che gli storici s’ingannarono allorché affermarono la defezione di tutta la Marina napoletana. Non tutta defezionò: i marinai napoletani capitanati dai Criscuolo padre e figlio, (e Vincenzo Criscuolo è vivo e può dirlo) condussero i tre bastimenti ad essi affidati, e cioè il Saetta, il Messaggero e il Delfino, fuori tiro degl’italiani, (come allora dicevano). Il Messaggero e il Delfino potettero guadagnare le acque di Civitavecchia e vennero consegnati al governo pontificio: il Saetta, raggiunte le acque di Marsiglia , fu dato in consegna al generale Cutrufiano. Tanto Luigi l’ostricaro quanto il Servino han dichiarato dunque, assai vivacemente, falsa l’asserzione del tradimento di tutta la Marina borbonica. Essi, dei bastimenti ove imbarcavano, non cedettero, per dirla con la loro frase energica, manco nu chiuovo!
Ed ora: ho voluto forse io smentire o correggere quanto afferma, a tal proposito, l’illustre de Cesare nella sua opera insigne? Dio me ne guardi. Mi sarebbe stato invece assai facile modificare le ottave dialettali su le notizie definitive di cui è cosi ricca “La fine d’un Regno”; ma non ho voluto farlo perché mi è parso di dover conservare al componimento poetico tutto il carattere popolare per non alterare il tipo del luciano borbonico, nella tenacia delle sue convinzioni, nei suoi scatti, nelle sue rampogne, nei suoi sfoghi, contro la libertà ed i liberali. Perché sfrondarlo appunto di tutto quello che può costituirne il fedele ritratto?
Del resto, oltre l’asserzione che da Caserta accompagnarono il Re solamente quattro marinai, – segrete guardie del corpo, ben celate, fra il seguito, – il racconto di Luigi l’ostricaro combacia in molti punti con quello degli storici. Restano gli sfoghi di questo vecchio, ed il giudizio dei lettori benevoli e malevoli. Gli sfoghi sono autentici, e basta la mia affermazione a chi sa come sia mia consuetudine il lavorare sul vero. Quanto ai lettori malevoli, pensino pur quel che vogliono. Anni or sono mi buscai, nientemeno, un processo per un altro tipo di popolano che fu oggetto di mio studio: ‘O pezzente ‘e San Gennaro, Questo pezzente, dell’Ospizio di San Gennaro extra moenia, era un giorno seduto, fumacchiando, nei giardinetti di Piazza Cavour. Mi sedetti accanto a lui e lo feci parlare. Segnai le sue escandescenze e i sui piati nel mio taccuino, ne ricavai una macchietta popolana, ed ebbi la idea di pubblicarla nel Mattino. Il Mattino fu sequestrato, con una ordinanza del Procuratore del Re de Marinis. Vennero gli agenti nella tipografia del giornale, buttarono all’aria i caratteri, fu aperto procedimento contro me, per offesa alle istituzioni! E il giorno dopo, nel medesimo Mattino, Edoardo Scarfoglio pubblicò un articolo di fondo, intitolato: “Il terribile anarchico Ferdinando Russo”.
Chiamato innanzi al giudice istruttore cavalier Lopes – con “mandato di comparizione„ – io m’inerpicai ridendo per le smussate scale del vecchio monastero di donn Albina, ove s’ annidava, come un pipistrello, la Giustizia, e feci la mia deposizione – Perché avete scritto quella macchietta? – Perché, d’ordinario , mi diverto a scriverne. – Ma come? – Si, mio Dio! È un gusto come un altro! C’è chi si ficca le dita nel naso, chi gioca al lotto, chi manda lettere d’amore alla zia monaca per avere una sfogliatella e dieci lire… Io scrivo macchiette… – Avevate, scrivendo quella, l’intenzione di offendere ecc. ecc. ecc.? Fui quasi tentato di rispondere sì, tanto mi pareva balorda la cosa. Per fortuna, il magistrato era una persona di spirito, oltre ad essere una persona intelligentissima. E l’avventura finì, come diciamo noialtri napoletani, a vrenna…
Senonché… non finì completamente. Ebbe una coda di balordaggini poliziesche. Quando Nicola Maldacea, innamorato del tipo, volle interpretarlo con un comento musicale – e fu una delle più forti sue creazioni – la Pubblica Sicurezza intervenne, a Napoli e a Roma, e, credo, pure altrove. La macchietta dovette essere modificata: il ritornello, che invocava Francischiello, cambiato. Ma il pubblico andava e va lo stesso in visibilio per Maldacea, quando lo sentiva e lo sente borbottare con la voce tremante:
Tanno, ‘e ppezze ‘e tenevamo pe niente,
e mo ‘e ttenimmo… nf accia a li cazune!
Le prime quattro strofe di questo mio poemetto, sotto il titolo ‘O marenare ‘e Santa Lucia, diedero l’ispirazione a Peppino Villani d’interpretarne il tipo. Egli è riuscito a fare opera di arte superba. Truccato da vecchio pescatore luciano si presenta ai pubblici che lo ammirano; ma poiché in quelle prime quattro strofe non vi è alcuna allusione politica, egli non è stato molestato dalle “Autorità„. Forse, sarebbe stato buttato a marcire in una tetra prigione se non si fosse limitato a quelle o avesse scelto altre strofe più piccanti.
Quanto a me, non dispero, dopo la pubblicazione di questo libro, di perdere i diritti civili e politici, per venir poi, con una palla di cannone al piede, precipitato in quel tenebroso mare che era, – come tutti ricordano, – il cimitero del castello d’If!
Napoli, nel Dicembre del 1910.
I
1.ª
-Addò se vere cchiù, Santa Lucia?!
Addò sentite cchiù l’addore ‘e mare?
Nce hanno luvato ‘o mmeglio, ‘e chesta via!
N’hanno cacciato anfino ‘e marenare!
E pure, te facea tant’allegria,
cu chelli bbancarelle ‘e ll’ustricare!
‘O munno vota sempe e vota ‘ntutto!
Se scarta ‘o bello, e se ncuraggia ‘o brutto!
2.ª
Ah, comme tutto cagna! A tiempo ‘e tata,
ccà se tuccava ‘o mare cu nu rito!
Mò ncopp”o mare passa n’ata strata,
tutto va caro, e niente è sapurito!
Santa Lucia m’ha prutiggiuto sempe!
M’ha rata ‘a vista ‘e ll’uocchie, pe veré
ca l’ommo cagna comme cagna ‘o tiempe,
e ca chi sa che vène, appriesso a me!
3.ª
Io, quacche vota, quanno sto nfuscato
e me straporto a quann’ero guaglione,
me crero ca so’ muorto e sutterrato
sott”a muntagna ‘e chisto Sciatamone!
Pare n’ato paese! È n’ata cosa!
Tu nce cammine e nun te truove cchiù…
E pure, è certo, era accussì spassosa,
Santa Lucia d”a primma giuventù!
4.ª
Arbanno juorno, dint”e vuzze, a mmare,
c’addore ‘e scoglie e d’ostreche zucose!
Verive ‘e bbancarelle ‘e ll’ustricare
cu tutt”o bbene ‘e Ddio, càrreche e nfose!
E chelli ttarantelle int”a staggione!
Femmene assai cchiù belle ‘e chelle ‘e mo’!
Uocchie ‘e velluto, vocche ‘e passione,
lazziette d’oro e perne, int”e cummò!
5.ª
Tutt”e ccanzone t”e ppurtava ‘o mare,
p”a festa r”a Maronna r”a Catena,
cu ‘a bbona pesca, ‘e cuoppe r”e renare,
e ‘a cantina ‘e Cient’anne sempe chiena!
Mò… che ne cacce? Cca s’è fravecato!
Tutto è prucresso, pe puté arrunzà!
Si’ marenaro? E, quanno ‘e faticato,
fai ll’uocchie chine… e ‘a rezza nun t”o ddà!
II
6.ª
Quanta ricorde! Quanta cose belle!
N’arena d’oro e n’abbundanza ‘e ciele!
Treglie e merluzze, vive, int”e spaselle,
e ‘o mare tutto cummigliato ‘e vele!
Veneva ‘a voce, da li pparanzelle:
“Aonna, ‘o mare! Aonna!…„ E li ccannele
s’appicciavano nnanza a li Ssant’Anne,
p”a pruvverenzia “ch’è venuta aguanne!„
7.ª
Te redevano ll’uocchie comm”o sole!
Tenive mmocca ‘o ddoce d’ogne mmèle!
Nfra l’anno ‘mmaretàvemo ‘e ffigliole
cu uno ‘e tutto, ‘e musulline e tele!
N’appicceco? Era justo ‘e tre pparole!
Muglièreta? Nu scuoglio! Era fedele!
Ncapace ‘e niente, a chillo tiempe bello,
c’ogne cazetta era nu carusiello!
8.ª
‘E state, tuorno tuorno all’ustricare,
muntagne ‘e freselline e tarallucce.
L’addore ‘e purpetielle e fasulare
faceva addeventà pisce ‘e cannucce!
E nterra ‘a rena sciascïava ‘o mare;
e, appriesso, ‘o ballo d”e ttarantellucce;
e nu suono e chitarra e tammuriello,
e na magnata d’ostreche ‘o Castiello.
9.ª
Facèvamo ‘Accarèmia ‘e ll’ova tosta,
a chi se mmucava a doi pe morza!
Scummessa fatta, s’accetta ‘a pruposta,
e n’agliuttive tre, cu tutt”a scorza!
E ‘a coppa, vino niro comm”a gnosta,
e danne quanto vuò ca cchiù se sorza!
E ‘o bello nun cadèvamo malate!
Robba sincera, e stuòmmece pruvate!
10.ª
‘E ffeste p”a Maronna ‘e miez’Austo!
‘A nzegna pe ncignà l’àbbete nuove!
Te nce spassave e nce pruvave gusto,
pecché ‘o pputive fa! Tenive ‘e chiuove!
Mo’, vai p’assaggià vino, e siente musto,
te vonno dà ‘e mellune senza prove,
e, comm’a chillo, sfurtunato ‘ntunno,
si mine ‘o sciato a mare, te va ‘nfunno…
11.ª
‘A nzegna ne chiammava folla ‘e gente!
D’uommene e nenne friccecava ‘o mare.
Sott”o sole, cu amice e cu pariente,
tu quanto te spassave, a summuzzare!
‘O furastiero, nun sapenno niente,
si se fermava a riva pe guardare,
se sentea piglià pèsole: e ched’è?
Mm”o carrïavo a mmare appriesso a me!
12.ª
E che vedive, llà! Strille e resate,
e chillo ca n’aveva calatune!
Doppo: “Signò, scusate e perdunate!
È festa, e nun s’affènneno nisciune…„
Cchiù de na vota nce se so’ truvate
‘a Riggina c”o Rre, sott”e Burbune…
E ‘o Rre, ca tuttuquante nce sapeva,
quanta belle resate se faceva!…
III
13.ª
Io mo’ so’ bbiecchio, tengo sittant’anne,
‘a sbentura mm’ha fatto ‘o core tuosto,
embè, affruntasse pure ati malanne
pe vedé ancora ‘a faccia d”o Rre nuosto!
Ferdinando Sicondo!… E che ne sanno?!
Còppola ‘nterra! N”o ttengo annascuosto!
E nce penzo, e me sento n’ato ttanto!
So’ stato muzzo, a buordo ‘o Furminanto!
14.ª
‘O Rre me canusceva e me sapeva!
Cchiù de na vota, (còppola e denocchie!)
m’ha fatto capì chello che vuleva!
E me sàglieno ‘e llacreme int’ all’uocchie!
‘A mano ncopp”a spalla me metteva:
“Tu nun si’ pennarulo e nun t’arruocchie!
Va ccà! Va llà! Fa chesto! Arape ‘a mano!„
E parlava accussì: napulitano!
15.ª
Quanno veneva a buordo! Ma che vita!
Trattava a tuttuquante comm’a frato!
Sapeva tutt”e nomme: Calamita,
Mucchietiello, Scialone, ‘o Carpecato…
Èramo gente ‘e core! E sempe aunita!
“Murimmo, quann”o Rre l’ha cumannato!„
Mo’ che nce resta, pe nce sazzià?
Ah!… Me scurdavo ‘o mmeglio!… ‘A libbertà!
16.ª
‘A libbertà! Chesta Mmalora nera
ca nce ha arredute senza pelle ‘ncuolle!…
‘A libbertà!.. ‘Sta fàuza puntunera
ca te fa tanta cìcere e nnammuolle!…
Po’ quanno t’ha spugliato, bonasera!
Sempe ‘a varca cammina e ‘a fava volle,
e tu, spurpato comm’a n’uosso ‘e cane,
rummane cu na vranca ‘e mosche mmane!…
17.ª
‘A libbertà! Mannaggia chi v’è nato!
‘A chiammàsteve tanto, ca venette!
Ne songo morte gente! S’è ghiettato
a llave, ‘o sango, sott”e bbaiunette!…
Mo’, vulesse veré risuscitato
a ‘o Rre ca n”a vuleva e n”a vulette!
E isso, ca passai pe ttraritore,
se ne facesse resatune ‘e core!
IV
18.ª
Comme lle pïaceva ‘a capunata!
Quase ogne juorno na capunatella!
Se ne faceva justo na scialata,
e doppo, ‘o bicchierino e ‘a pastarella.
Po’, cu na bona tazza ‘e ciucculata,
se pastiggiava sempe ‘a marennella…
Ah, chella tazza! Chella tazza fuie,
ca, comm’a mo’, nce ha ‘rruvinato a nuie!
19.ª
Che nce mettette ‘a rinto, chillo ‘mpiso
ca, pe farlo murì, l’avvelenaie?
Meglio era s’isso nce mureva acciso!
Isso, ch’è stato ‘a causa ‘e tutt”e guaie!
‘O Rre nuosto ‘o ssapette, ‘nparaviso,
e certo, ‘o ggiurarrìa, nce ‘o pperdunaie!
Ma si nun era ‘o ttuòsseco ‘e sta tazza,
n’avriamo viste tanta cane ‘e chiazza!
20ª
Lassammo sta’! Nun ricurdammo niente!
Quanno nce penzo me sento malato!
Se verèvano a sciumme, ‘e ppèzze ‘argiente!
Mo’ è raro pure ‘o sòrdo scartellato!
Trasètteno?… Ma a botte ‘e trademiente!
Nun me dicite ca me so’ ngannato!
Trasètteno, gnorsì!… Senza cammise!
E ‘o ddicevano stesso ‘e piamuntise!
21.ª
Mo’ lloro stanno ‘a coppa!… Mo’ sta bene!
Ma, p’arrivà, n’hanno magnato sivo!…
A Palazzo Riale, ‘e ccasce chiene!
Nce hanno spurpato anfino all’uosso vivo!
M’aggia sta’ zitto, è ove’? Nun ve cummene
‘e me sentì parlà?… Ve fa currivo?!
Llà s’avriano jucato a paro e sparo
pure ‘o Santo Tesoro ‘e San Gennaro!
22.ª
So’ biecchio? So’ gnurante? Nun capisco?
Me sustenite ch’è tutt”o ccuntrario?
Embè… voglio sapè che fosse ‘o Fisco!
Nun fui n’aggrisso ‘o cchiù straurdinario?
Io tengo ‘a rrobba, tu m”o mmiette ‘nfrisco,
po’ me rice ca serve pe l’Arario!
Parole nove!… Io nun cumbino cchiù!
St’Arario fui ca t”o mmagnaste tu!
23.ª
Chi ne sapeva niente, ‘e chesti ttasse?!
L’oro jeva accussì… comm”e lupine!
Ognuno, a gusto suio, magnava ‘e grasse,
cu’e ssacche chiene ‘e rurece-carrine!
Mo’ manco cu ‘e ppatane uno se ngrasse,
ca vanno care comm”e tagliuline!…
Songo gnurante? Avraggio tutt”e tuorte!
Ma… quanno mai, io jastemmavo ‘e muorte?!
24.ª
Me so’ mparato mo’!… È ‘o sango stesso
ca se revota e nce scumbina ‘e ccape!…
ah, tiempo bello!… Si’ squagliato ampresso!
Nui simmo addeventate tanta crape!
Ah, so’ gnurante?… Nce ‘o scuntammo appriesso!
Po’ verimmo sta porta chi l’arape!
‘E palazze?… So’ belle!… ‘E strate?… Pure!
Ma s’è perza ‘a semmenta d”e signure!
25.ª
Addò stanno, Statella e Muliterno,
nu ruco r”a Riggina o n’Uttaiano!
Fosse cchiù certo ‘e vengere nu terno!
Nun m’avantasse cchiù: “So’ luciano!”
È stata vuluntà d”o Pat’Eterno,
si no, v”o scummettesse a piezzo ‘nmano,
ca, si nun era munzignor Caputo,
chillo, ‘o Sissanta, nun sarria venuto!
V
26.ª
So’ stato marenaro mmiezo ‘a scorta
d”o Rre, malato ‘e chella malatia!
Tutte pronte a vigliarlo! Arreto ‘a porta,
nnanz”a carrozza, sulo, ‘ncumpagnia…
Mai na parola! Mai na faccia storta!
Mai nu suspetto, pe Santa Lucia!
Era sicuro ‘e jì, venì, restá…
‘E luciane suoi stevano llà!…
27.ª
Stevano llà! Na squatra pronta a tutto!
Ogne parola, ogne guardata, ogn’atto!
Viaggio tristo assai! Viaggio brutto!
Cchiù de na vota s’è purtato ‘nquatto!
Isso, ca ne vulea tirà ‘o ccustrutto,
n’arrivava a sapé che s’era fatto
pe chella malatia misteriosa,
accussì nfama e tantu mai schifosa!
28.ª
Vi’ c’anno fui, chillo Cinquantanove
cu chillo spusalizzio ‘e Francischiello!
L’otto ‘e Jennaro, chiove, chiove e chiove!
C’aveva fa? Partette, ‘o puveriello!
Lampe e saette, mmiezo ‘e strate nove,
e pigliaimo nu bello purpetiello…
Già, ‘o Rre, ca nce credeva, ‘a jettatura,
se ll’era ntruitata, sta sbentura!
29.ª
Partenno aveva ritto: “Si ncuntrammo
nu monaco, nu zuoppo o nu succiato,
sarrà nu malaùrio! Cammenammo!…„
E da nu piezzo se sentea malato.
Nun fui parola ritta, nui guardammo,
e già ‘o penziero suio s’era avverato!
Chi ncuntrammo? Tre muònece! ‘O ddicette!
E scatasciaino trònole e saette!
30.ª
A Mugnano, cu ‘o friddo dint’all’ossa,
scennette e jette a Santa Filumena.
Isso, ‘e figlie, ‘a Riggina, rossa rossa,
sott’a nu viento ca ‘o Signore ‘o mmena!
Se sape! ‘O sango lle fa tale mossa,
ca dint”a cchiesia se riggeva appena!
Doppo, s’abbatte ncopp’a nu cuscino,
e che nuttata cana, anfi’ ‘Avellino!
31.ª
Meno male ca po’ se repigliaie
e ‘o juorno appriesso, all’unnece, partette!
Ma credite ca ‘o tiempo s’accunciaie?
‘O nfierno pure llà nce se mettette!
A munno mio, nun m’è succiesso maie!
Fui tanta e tanta ‘a neva che cadette,
ch’io nun v’abbasto a dicere: zeffunno!
Llà nce cadette ‘a neva ‘e tutt”o munno!…
32.ª
Nu cielo ‘e chiummo, na campagna janca,
e nnanz’all’uocchie nu lenzuolo ‘e neva!
Tu vai cecato… ‘A zoza ca te stanca,
‘e ddete ‘e fierro… E ‘a forza, chi t”a deva?
Po’ cierti vventecate, a dritta e a manca,
ca sulamente Dio nce manteneva…
-Che facimmo?… Fermammo, Maistà?
E isso:-Jammo nnanza a cammenà!
33.ª
Ma ch’era ‘acciaro, o steva ‘nfrennesìa?
Facèvamo tre passe ogne doj’ore!
E duraie duraie, chesta pazzìa,
nfi’ a quanno nun turnaie ‘o battitore.
-Maistà, nun è pussibbele, p”a via…
Ccà passammo perìcule e mmalore…
E, cunzigliato da ‘o barone Anzano,
isso urdinaie:-Vutammo p’Ariano!
34.ª
E jettemo add”o Vescovo! Capite?
E ‘o vescovo era Munzignor Caputo!
Doppo nu miglio a ppede, me crerite?
‘o Rre arrivai nu straccio! Nterezzuto!
E no sul’isso! Stevamo sfenite!
Nun tenèvamo ‘a forza ‘e chiammà ajuto!
‘A Riggina, per farve perzuvaso,
jeva int’a neva cu ‘e scarpine ‘e raso!…
35.ª
Che nce vulette, pe piglià calimma!
‘A sera, ‘a bbona ‘e Ddio, votta e magnammo!
Llà fuie ‘o mbruoglio! ‘O ppriparàino apprimma
chello vveleno, o che?… Nun ne parlammo!
Dicetteno ca no!… Bella zuzzimma!
Quant’è certo stu juorno ca sciatammo,
stu Munzignore ca v’annummenaie,
dopp”o Sissanta, po’… se n’avantaie!
36.ª
Embè, chesto se fa?… Pròssemo tuio,
ca l”e cercata ‘a mitria e te l’ha data,
ca vene ‘a casa toia, pe gusto suio,
‘o vaie a ntussecà cu ‘a ciucculata!…
Ma s’io songo tentato, io me ne fuio,
nun già ca sceglio justo ‘a mala strata
sulo pecchè vene ‘o Demmònio e dice:
“Avvelèname a chisto, e simm’amice!…„
37.ª
S’era perduto ogne timore ‘e Ddio!
Putive suspettà ‘e nu saciardote?
Va buono, se mpattai!… Ma ve rich’io
ca l’avarrìano acciso ciento vote!
Chisto, verite, è razziucinio mio!
Nce n’addunàimo! Ch’èramo, carote?
E po’… si parle ca nun si’ birbante,
che vene a di’ ca doppo te n’avante?!
VI
38.ª
‘O Rre, ca già nun se senteva buone,
pecchè già ncuorpo serpiava ‘o mmale,
se sape! quann’avette ‘o calatone
se sentette cchiù peggio! È naturale!
Basta; nun ‘o mmettimmo ‘n custione,
nun ce scurdammo ‘a cosa princepale!
Comme vulette Ddio, llà dintu llà,
magnàjemo… e nce ne jettemo a cuccà.
39.ª
Ma ‘a notte, all’antrasatto, nu remmore
nce mena tutte dint”a stanza ‘o Rre…
Vedennolo, accussì, cu ll’uocchie ‘a fore,
l’addimannammo: -“Neh! Maistà… Che r’è?”
“-Llà… llà… chill’ommo… Nu cuspiratore…
Se vuleva accustà… vicino a me…
Da nu spurtiello… dint”o muro… llà…”
E nui cercàimo… Ma che vuò truvà!
40.ª
S’era sunnato, e overo se credeva
d’avè vist’uno ca l’assassenava,
quanno ca pe sti suonne che faceva
chell’era ‘a malatìa che cammenava!
E chi durmette cchiù?! Nun te veneva!
Arbava juorno e se chiacchiariava….
All’otto, n’ata vota ‘a stessa renza!
Nce sentettemo ‘a messa, e po’: partenza!
41.ª
Che precepizzio ‘e via dopp’Ariano,
jenno pe Foggia e Andria e pe Canosa!
‘O Rre malato, chillo tiempo cano,
nu mbruoglio pusetivo ‘e tuttecosa!
Ogne vivò, isso cacciava ‘a mano…
(‘A veco sempe, chella mana nfosa…)
E po’ a Bitonto, pe Ruvo e Trellizze,
e gente c’aspettava a tutte pizze…
42.ª
Aspetta, aspetta! ‘O Rre passava ‘e trotte,
pe tuccà Manferònia ampressa ampressa!
E p’Acquaviva nce passàimo ‘e notte,
e doppo n’ora, cu ‘a truttata stessa,
dïune, stracque, ammatuntate ‘e bòtte,
cammina, pe ghì ncontra ‘a Princepessa!
A Taranto, spezzate dinto ‘e mmecce,
tu qua’ fermata! Nce fermammo a Lecce!
43.ª
E a Lecce se nchiummai! Nun pare overo,
pecchè, che saccio… s’era repigliato…
Parlai cu tutte, ricevette ‘o Clero,
e ‘a sera stessa vulett’ì ‘o triato!
Anze, vedite quanto steva allero,
ca, cu nu Truvatore appriparato,
isso alluccai: -“Che Truvatore! A chi?
Fate don Checco! M’aggia divertì!…„
44.ª
Ma ‘o juorno appriesso, (e chi s”o suppuneva?)
nun se partette!… ‘A cosa s’aggravava…
‘O duttore Lione ca curreva,
‘o nzagnatore ca m”o salassava…
Apprimma, miccia miccia, chella freva
se nc’era misa ncuollo e n”o lassava;
e ‘a Riggina, gialluta comm”a paglia,
fa correre, da Napule, a Ramaglia.
45ª.
Vene Ramaglia cu Capozze, vene
ll’anema ‘e ll’urzo, vene tutt”o munno!
Se po’ sapè che r’è?! Chi te sustene
ca se va a galla; chi ca se va nfunno;
chi se stregne int”e spalle; chi cummène
ca nun ‘o ssape, e ‘o ddice chiaro e tunno…
Eppure, chillo, ‘o Rre, l’aveva ditto!
“Tengo ‘o presentimento ca so’ fritto!…„
VII
46ª.
Già, quanno stu Ramaglia fui chiammato,
primma ca stu viaggio se facesse,
dicette ‘o Rre: – “Ramà, si scienziato?
E vedimmo sta scienzia che dicesse!„
Ramaglia ‘o vesetai. – “State malato!
È niente, ma però… ve prupunesse…„
‘O Rre ‘o guardai. – “Che prupunisse, di’?„
-“Maiestà… ve prupunesse… ‘e nun partì!„
47.ª
-Pecchè? dicette ‘o Rre; ch’è funnarale?
-No… nient”e chesto! Mill’anne ‘e saluta!
Ma che facimmo? Pe scanzà nu male,
mettimmo ncopp’a cuotto acqua vulluta?
E ‘o Rre: -Ramaglia mio, si’ n’animale!
Sta cosa ‘ncapo chi te l’ha mettuta?
Nun me vuò fa’ partì? Pe chi me piglie?
Quant”e avuto, pe darme sti cunziglie?!
48.ª
E vulette partì! Nu cuoccio tuosto,
ca ‘o simmelo comm’isso, nun ce steva!
Tu l”e chiammato? E chillo t’ha rispuosto…
Na cosa bona pure t”a diceva!
Ma che buò fa’? pe malaurio nuosto,
quanno ncucciava, niente nce puteva!
‘A pigliai storta, se mettette ‘ntuono,
e vulette partì, malato e buono!
49.ª
Che v’aggia di’? Chi sa!… Si nun parteva
ferneva tuttecosa a ppazziella,
e chella sfenetezza che senteva
sarrìa passata cu na misturella…
Arïano aspettava, isso nun jeva,
e scumbinava buono ‘a jacuvella,
e te lassava comm’a statue ‘e sale
a Munzignore e a tutt”e libberale!
50.ª
Pirciò fui smaleditto, stu viaggio
cu ‘a jettatura ‘e trònole e saette!
E pirciò, pe sta causa ‘e stu rammaggio,
anfino a Manferònia nun se jette!
Jettemo a Bare… Già traseva Maggio…
Era ‘o vintotto ‘Abbrile… o vintisette…
E nce arrivàimo mmiezo a spare e suone,
e na gran folla ‘e pupulazzione.
51.ª
Ma n’ato malaurio l’attuccava!
Te pareva na cosa fatt’apposta!
Sott”e balcune ‘a folla aumentava,
(genta tutta fedele ‘a causa nosta)
e lle sbatteva ‘e mmane, e l’accramava:
Vivò!… Vivò!… Vivò!… Botta e risposta…
Embè, ‘o ccrerite? Justo mmiezo ‘a via,
‘o Rre a chi vede? Na cunfrataria!
52.ª
Cosa ca, si se conta, uno te dice:
“A chi l’assigne? Va ncujeta a n’ato!„
E isso, (ca ‘o Signore ‘o benedice!)
nce rummanette troppo spaventato!
Ogne mumento sunnava nemice,
e, p”a paura, sempe cchiù malato,
ve putite penzà cu che allegrìa
ricevette, accussì, Maria Sufia!
53.ª
Nun se gudette niente, ‘e chelli ffeste!
Parlava appena, passanno ‘e paise!
Quatto, cinco parole, lestu-leste,
addò ca chillo ne facea fa’ rise!
C’argentaria! C’adduobbe e frusce ‘e veste!
‘E Ppuglie ne spennettero turnise!
Triate, balle, serenate, sciure,
e isso ncopp”a branda cu ‘e delure!
54.ª
Ogge, nu poco meglio, e respirava;
dimane, verde peggio d”e ccutogne!
A tavula, penzava e nun magnava…
Cu ‘a capa sotta, se guardava ll’ogne…
Murtrïuso, accussi, sfarnetecava,
penzanno certo a chelli gran carogne
c’aveano armato contr’a isso ‘a mano
e ‘a bbajunetta ‘e Gisalao Milano.
VIII
55.ª
Bare era propio na galantaria,
cu tutte chilli princepe rignante
c’accumpagnàino ‘a sposa! E p”allegria
tu te sentive overo n’ato ttanto!
Chesto, pe dint”e ccase e mmiezo ‘a via,
pecchè add”o Rre se ne faceano chiante!
Po’ avevano urdinato: -Lengua ‘mmocca!
-Comme sta ‘o Rre? -Sta buono… ma se cocca…
56.ª
Aviveve ‘a vedè chella Riggina!
Pe dà sullievo ‘o Rre, facev’un’arte!
Jeva essa stessa pure int”a cucina!
Na santa ‘n cielo m”a mettite ‘e parte!
Senza vulè durmì, sera e matina,
a priparà dicotte, a firmà carte…
E parlava cu miedece e dutture,
danno curaggio a ‘e stesse prufessure!
57.ª
Passava ‘o tiempo… ‘O mmale aumentava…
Nisciuno cchiù diceva na parola…
Nisciuno cchiù durmeva o risciatava,
nfra nu silenzio ‘e quanno ‘a mosca vola…
Lampe allumate, gente ca pregava,
e ll’uoglio santo, e l’acqua ‘e San Nicola,
e l’abbetiello ‘e Sant’Affonzo… Che!…
Mò era n’ombra ‘e Rre, nun era ‘o Rre…!
58.ª
E venette ‘o scatascio! Se sapeva!…
Giesù! Chill’uocchie suoi!… Comme guardava!.
Vivo, senteva ‘a morte, e nun mureva,
vedenno ‘o cuorpo ca se nfracetava!…
delure dint’ali’osse, friddo, freva,
nu tremmulicchio ca te spantecava,
na smània ‘e sete, senza arrepusarte,
e vierme ca ll’ascéano ‘a tutte parte…
IX
59.ª
Comm’ ‘o purtàimo, a buordo ‘o Furminanto?
Comme jette da Puortece a Caserta?
Erano mise, e chi assaggiava tanto!?
Erano mise, ch’io durmevo allerta!
Doppo prïato a Dio santo pe santo,
‘a povera Riggina, amara e sperta,
dice: – Tentammo st’urdema speranza,
e mannammo a chiammà Vicienzo Lanza!
60.ª
Chisto era gran duttore e libberale,
ma currette, dicìmmola comm’è!
Surtanto, le fui ditto, tale e quale,
ch’isso, ‘o malato nun l’avea vedè!
S’era penzato ca pareva male
fa trasì stu nemico nnant’ ‘o Rre;
e Lanza se strignette dint’ ‘e spalle:
“A saluta d”o Rre nun va tre calle!„
61.ª
– Comme, nun va tre calle? – V”o ddich’io!
È inutele, sta vìseta add”o Rre!
Io so’ chi so’ ! Faccio ‘o mestiero mio!
Ma è troppo tarde, mo! Sentite a me!…
P”o riesto, nu miracolo ‘o fa Dio;
ma… si ‘o facesse… ‘o vvularria vedè!
‘O fatto è chiaro comm’acqua ‘e funtana!
Dàtele latte ‘e femmena, e se sana!
62.ª
‘O miedeco curante era Rusato,
e se mettette a ridere. – N”o ccrire?
dicette Lanza; fai c’aggio sbagliato?
Nnanza a Vicienzo Lanza nun se rire!
E, certo, o scienzia, o c’ato fosse stato,
nui simmo jute cu ‘e vestite nire!
Speràvamo, nce dèvamo curaggio,
ma ‘o Rre murette ‘o vintiduie ‘e Maggio…
63.ª
Chest’è, quann”a Furtuna è na zuzzosa!
Si tu ‘o rilorgio ‘o guaste int”o cungegno,
hai voglia ‘e l’accuncià, ca nun è cosa!
E accussì fui! Muort’isso, muorto ‘o Regno!
‘A strata se facette ntruppecosa,
Calibbarde aspettava e avette ‘o segno;
cade Gaeta, doppo quatto mise,
e nui… natàimo ttutte int”e turnise!
64.ª
Ah! Ah! Me vene a ridere, me vene!
Ogneruno sperava ‘avè na Zecca,
tanta renare quanto so’ ll’arene,
‘a gallenella janca, ‘a Lecca e ‘a Mecca!
Faciteme ‘e berè, sti ppanze chiene!
Seh, seh! Quanno se ngrassa ‘a ficusecca!
Comme scialammo bello, dint’a st’oro!
Sciù pe la faccia vosta! A vuie e a lloro!
65.ª
Ccà stammo tuttuquante int”o spitale!
Tenimmo tutte ‘a stessa malatia!
Simmo rummase tutte mmiezo ‘e scale,
fora ‘a lucanna d’ ‘a Pezzentaria!
Che me vuò di’? Ca simmo libberale?
E addò l’appuoie, sta sbafantaria?
Quanno figlieto chiagne e vo’ magná,
cerca int”a sacca… e dalle ‘a libbertà!
NOTE
OTTAVA 1.a
” Vére “, per vede, corruzione plebea, come ” rito “, per dito.
Nella 2.a ottava, ” rata “, per data, da dare – ” vedè ” per vedere; e nelle ottave seguenti: ” Maronna”, per Madonna, – “r’ ‘a “, per de la – ” ruco ” per duca, ” crero “, per credo, – ” sórdo ” per soldo, – ” arbanno “, per albanno, albeggiando, – ” renare ” per, denari, – ” ritto ” per detto, e via.
Il così detto “bonificamento di Santa Lucia”, che doveva darci un famoso “Quartiere della bellezza”, spinse lontano il mare, che prima toccava la vecchia e pittoresca via, tutta ingombra di banchette di ostricari, e talvolta giungeva ai vicoli sporchi, stretti, neri, ma caratteristici. Prolungando la nuova strada, la congiunse con via Caracciolo, abbatté case e casupole… ma ci diede i fabbricati nuovi che ora ammiriamo, veri casermoni che faranno sempre torto agli architetti, ai costruttori, ed all’Ufficio tecnico municipale.
OTTAVA 3.a
” Nfuscato “, fosco, di malumore.
” Straporto “, da ” straportà “, trasportarsi ai tempi passati.
” Guaglione “, ragazzo.
OTTAVA 4.a
” Arbanno juorno “, sull’albeggiare.
” Vuzzo “, specie di barca da pesca.
” Zucose “, succose.
” Nfose “, bagnate, stillanti acqua.
” Cummò “, cassettone.
OTTAVA 5.a
La “Cantina di Cient’anne” era una famosa bettola che pigliava nome dal soprannome del suo primo proprietario. Fin dallo scorcio del ’700 era notissima, e sempre affollata di luciani. (Vedi il mio libro, Santa Lucia).
” Prucresso “, progresso.
” LI’uocchie chine… ” è una espressione popolare: ” Uocchie chine e mane vacante “. E non mi pare indispensabile spiegarla. ” Chine “, pieni.
OTTAVA 6.a
” Cummigliato “, coperto.
” Aonna “, abbonda. Era il lieto grido dei marinai quando tornavano a riva con le reti pesanti. E allora nelle loro case quintuplicavano l’illuminazione innanzi alle imagini di Sant’Anna, di Santa Lucia, della Madonna della Catena.
” Aguanne “, in quest’ anno.
OTTAVA 7.a
” Appicceco “, rissa, contesa. Spessissimo era davvero, come dice il mio marinaio, di tre parole, e senza conseguenze, Ma son pur famosi gli “appiccechi” sul serio, fra donne, che duravano e durano delle giornate intere.
” Carusiello ” salvadanaio. E le donne luciane solevano raccogliere i loro risparmi nelle vecchie calze, come fanno anche altrove le popolane.
OTTAVA 8.a
” ‘E state “, di estate.
” Fasulare “, specie di mollusco saporitissimo.
” Faceva addeventà pisce ‘e cannucce “, espressione che corrisponde a: faceva venire l’acquolina. I pesciolini in frotta accorrono alle cannucce con l’esca, e abboccano.
” Sciascïava “, da sciascïare, quasi intraducibile: godere dondolandosi mollemente, crogiolarsi, distendersi con mollezza beata.
” Ostreca d’ ’o Castiello “, qualità gustosa d’ostrica, piccolissima, prolificante intorno allo scoglio ov’é il Castello dell’Ovo.
OTTAVA 9.a
” ’Accarèmia ‘e ll’ova toste “, letteralmente: l’Accademia delle uova sode; vecchia consuetudine popolare. Si scommetteva a chi bevesse più vino su le uova dure e a chi più presto le inghiottisse. E allora, per brillare nell’Accarèmia, v’era chi non le masticava affatto…
” ‘A coppa “, di su le uova.
” Gnosta ” e ” gnòstia “, inchiostro.
OTTAVA 10.a
” ‘A nzegna “, vedi: Ferd. Russo, Santa Lucia.
” ’E chiuove “, i chiodi, i denari.
” Sciato “, fiato, alito.
OTTAVA 11.a
” Friccecava “, brulicava.
” Summuzzare “, tuffarsi tutto e resistere sotto l’acqua, e andar fino in fondo. Era fiorentissimo un tempo a Santa Lucia il mestiere di sommozzatore. Financo i fanciulli, a 12 e 14 anni, invitavano i forestieri a buttare una moneta a mare; e si tuffavano, e scendevano fino al fondo, e la riportavano. Vedi: Russo, Santa Lucia.
” Pèsole “, di peso.
” Carriavo “, da ” carriare “, trascinare: trasportar di carriera.
OTTAVA 12.a
” Calatune “, plurale di calatone. Il tuffare per forza qualcuno giù nell’acqua, saltandogli all’improvviso su le spalle. I luciani e tutti i pescatori e marinai del golfo di Napoli lo fanno così abilmente che non si è mai avuto altro caso fuori dello sgomento di colui che subisce il calatone.
OTTAVA 13.a
Vedi in prefazione.
OTTAVA 14.a
” Pennarulo “, pennaiuolo. Così soleva chiamare Ferdinando II gli scrittori, i letterati, i giornalisti, i professori, tutti coloro che, passando per colti, gli eran sospetti e gli venivano lumeggiati per agitatori.
” Nun t’arruocchie “, non cerchi di formar comitiva; da ” arrucchiarse “, mettersi in ” rocchia “, riunirsi, e, in questo caso, per darsi a sfoghi politici o per congiurare.
OTTAVA 15.a
” Mucchietiello, Scialone”, etc. Veri soprannomi di luciani.
OTTAVA 16.a
” La Mmalora nera “, la Versiera, la Malora.
” ’Ncuolle “, addosso.
” Fàuza “, falsa, mentitrice, ingannatrice.
” Puntunera “, da ” puntone “, cantone: donna da partito, sgualdrina.
” Cìcere e nnammuolle “, moine interessate, false lusinghe.
” Sempe ’a varca cammina e ’a fava volle “, oppure: ” ‘a varca cammina e ’a fava se coce “, frase efficacissima per dinotar che il “fatale andare„ delle cose che vanno male, non cambia.
” Volle “, bolle, da bollire, che in dialetto si traduce: ” vollere “.
” Spurpato “, spolpato.
” Rummane ” ecc. da ” rummanere “, restare: Resti come colui che chiude in pugno il vento.
OTTAVA 17.a
” Isso “, esso, lui, egli – secondo i casi.
OTTAVA 18.a
” Capunata “, gallette o biscotti rustici, immollati nell’acqua fresca, conditi con olio, sale, aceto, ulive, capperi, acciughe, erbe aromatiche. Ferdinando II ne era ghiottissimo.
” Chella tazza! ” Quella tazza di cioccolatte che i fedeli napoletani credettero fosse stata offerta al Re con veleno, dal vescovo di Ariano mons. Caputo. Fu detto pure che mons. Caputo aveva avvelenato il Re con un sigaro; altri disse con una pezzuola… Le voci sono smentite. Ma qualche storico, pure affermando che il Caputo era incapace di tanto, non seppe tralasciare di dire che, dopo il ’60, si era vantato della cosa. Vedi: Bernardini, Ferdinando II a Lecce De Cesare, La fine di un Regno. – Avv. E. di Martino, Ricordanze storico-morali.
OTTAVA 19.a
” ‘Mpiso “, impiccato, pendaglio da forca. Allude all’autore del voluto avvelenamento del Re, come sarà spiegato in seguito.
” Cane ’e chiazza “, cani di piazza, cani randagi. L’allusione del luciano del Re è chiara. Egli chiama cani randagi coloro che venivano nel Regno delle due Sicilie in cerca, secondo lui, dell’osso…
OTTAVA 20.a
” A sciumme “, a fiumi.
” Scartellato “, gobbo,
OTTAVA 21.a
” Sivo “, sego.
” Spurpato “, spolpato
” Cummene “, conviene; da ” cummenire ” o ” cummenì “.
OTTAVA 22.a
” Aggrisso “, aggressione, soperchieria.
” ’A rrobba “, la roba, la proprietà.
” Nfrisco “, in fresco; e, figuratamente, come qui: in sequestro, in confisca.
OTTAVA 23.a
” ’E grasse “, di grasso, con abbondanza.
” Dudece carrine “, dodici carlini; antica moneta napoletana.
” Tagliuline “, pasta di farina ed uova tagliata a strisce sottilissime: una delle specie più delicate dei nostri maccheroni.
OTTAVA 24.a
” Crape “, plurale di ” crapa “, capre. I popolani napoletani chiamano cosi anche l’isola di Capri.
” Arape “, apre.
OTTAVA 25.a
Gli Statella dei principi di Cassaro, i Moliterno, i Regina, i Forcella ecc. Gentiluomini della vecchia aristocrazia napoletana, di cui si ricordano sempre i fasti, le grandezze e le liberalità. Erano fedelissimi al Borbone, e qualcuno lo è ancora.
” A piezzo ’mmano “, col denaro in mano.
“Munzignor Caputo ” – Ve ne furono due. Qui, allude al Vescovo di Ariano, che si vantò, dopo il ’60, di aver avvelenato Ferdinando II. Cfr. De Cesare e Bernardini.
OTTAVA 26.a
” Pe Santa Lucia! ” Nella ottava, la frase non è esclamativa, ma sta come una constatazione semplice ed orgogliosa. “Mai un sospetto per Santa Lucia„ cioè, per tutti i popolani del rione marinaro che va sotto questo nome, e che si distinguono appunto dagli altri pescatori e marinari del golfo, col nome di luciani, come quelli delle due Torri si chiamano torresi, quelli di Pozzuoli pozzolani, etc.
OTTAVA 27.a
” Purtato ‘nquatto “, portato in quattro, cioè, a braccia dai quattro luciani.
OTTAVA 28.a
” Purpetiello “, piccolo polipo. ” Piglià nu bello purpetiello “, vale bagnarsi fino ai capelli; dal modo di pescare questa specie di piccoli polipi fra gli scogli, nel fondo del mare; e conviene quindi sempre tuffarsi – che è il sommozzare della nota alla ottava 11.a.
” Ntruitata “, introitata – Aveva quasi prevista, per superstizione, la sventura.
OTTAVA 29.a
” Scucciato “, calvo. E vale anche, in altro senso, per seccato, annoiato. Il Re, che credeva al malocchio, aveva davvero detto che il viaggio non sarebbe stato privo d’incidenti se egli si fosse imbattuto in uno zoppo, in un calvo, o in un monaco, uscendo dalla Reggia di Caserta. Ma vide tre monaci che gli facevano dei grandi inchini, e lo tenne per cattivo augurio; Cfr. gli storici De Cesare, Bernardini, etc.
” Parola ritta “, parola detta.
” Scatasciàino “, da ” scatasciare ” e ” scatascio “, rovinare, rovina, disastro.
” Trònole “, tuoni. Infatti, quell’anno, l’inverno fu pessimo e s’iniziò con violentissime tempeste di vento e di neve, e freddo intenso in tutto il regno.
OTTAVA 30.a
” Santa Filumena “, il Santuario di Santa Filomena a Mugnano, ove il Re si recò con la Regina, i figli e il seguito, ad onta dell’imperversar della tempesta. Per i maggiori particolari cfr. Bernardini, De Cesare, ecc.
OTTAVA 31.a
” Zeffunno “, bizzeffe, grandissima abbondanza di cosa che precipiti, come neve, sul terreno per impovvisi scoscendimenti, acqua, bastonate, etc. Diciamo infatti: ” nu zeffunno ‘e denaro ” – “Nu zeffunno ‘e mazzate ” – ” Nu zeffunno d’acqua “, etc. E si usa anche dire: ” Nu zeffunno ‘e risate ” – ” Nu zeffunno ‘e parole ” – ” Nu zeffunno ‘e guai “, etc.
OTTAVA 32.a
” Chiummo “, piombo.
” Zoza “, neve o acqua o fango molle o creta molle o altra poltiglia che non si rassoda pel continuo scalpiccio, e il passaggio di veicoli e di cavalli. Anche di una salsa mal fatta si può dire rifiutandola: ” È na zoza “.
” ‘E ddete ’e fierro “, le dita irrigidite, divenute come di ferro, pel freddo.
” Ventecate “, colpi violenti di vento. – Raffiche.
OTTAVA 33.a
” ’O battitore “, il battitore, la staffetta. Ritornata sui suoi passi comunicò infatti al Re che la via era assolutamente impraticabile. Cfr. gli storici citati.
” ‘O barone Anzano “. Il barone Anzani ed il fratello persuasero il Re a fermarsi ad Ariano. Ed avevan preparato un lautissimo pranzo, al quale però il Re non fece onore.
OTTAVA 34.a
Il particolare curioso delle scarpe di raso con le quali la Regina dovette fare circa un miglio a piedi è anche in Bernardini, Ferdinando II a Lecce.
OTTAVA 35.a
” Calimma “, calore.
” Zuzzimma “, (al 5.° v. dell’ottava) sudiceria, porcheria. Pel contenuto di tutta la strofa, cfr. gli storici.
” ’A bbona ‘e Ddio “, come Dio vuole, alla buona.
” Votta e magnammo “. Espressione popolare comunissima e frequentissima che completa la precedente: mangiamo alla meglio, come Dio vuole.
” Votta “, da ” vottare “, spingere; e si usa dinanzi ad ogni frase che denoti cosa o atto o fatica da fare senza voglia; quasi per orsù, via, avanti, etc.
” Fuie ’o mbruoglio “, fu l’imbroglio.
OTTAVA 37.a
” Se mpattai “, si riparò; da ” mpattare “, aggiustare, riparare, provvedere in un qualunque modo; metter cenere sul fuoco, etc.
OTTAVA 38.a
” Serpiava “, da ” serpiare “, serpeggiare.
” ’O calatone “, – Vedi nota alla ottava 12.a – Qui è usato per colpo di grazia. Il marinaio adopera i suoi termini marinareschi nel discorso. Al Re, già infermo, fu propinato il veleno, e però la sua salute andò peggiorando.
” ‘N custione “, in questione.
OTTAVA 39.a
” All’antrasatto “, ed anche ” ‘a ntrasatta “: all’improvviso. L’incidente è ricordato dagli storici su citati.
OTTAVA 40.a
” Renza “. Andar di “renza “, andar di lato, sotto il muro. In antico si diceva ” rente rente “. ” Tirate ‘a renza “, fatti da parte, fa largo; e figuratamente: ricordati di usarmi rispetto. ” Renza ” si usa pure per abitudine, cosa solita.
” ’A stessa renza “, la cosa medesima dei giorni passati; l’ordine di andare avanti.
OTTAVA 41.a
” Vivò “, evviva!.
” Pizze “, posti, fermate, luoghi.
OTTAVA 42.a
” Manferònia “, Manfredonia; come nella strofa precedente ” Trellizze “, Terlizzi.
” Ammatuntate “, da ” ammatuntare “, ” ammatuntarse “, buscarsi o produrre lividure e contusioni in tutto il corpo, per le botte prese durante un disastroso viaggio, o per sedare una rissa, o per lottare contro qualcuno o qualcosa.
” ’E mmècce “, da ” meccia “, giuntura: le giunture.
OTTAVA 43.a
” Se nchiummai “: vi piombò, vi rimase, perché il male aggravava; da ” nchiummare “, ” nchiummarse “, fermarsi ostinatamente in un posto, cadervi pesantemente come il ” chiummo “, piombo. Pel verso 4.° e seguenti cfr. gli storici. Il Re disse testualmente – Che “Truvatore„ e “Truvatore!„ Voglio sentì “don Checco!„ Me voglio divertì – Per altri particolari, vedi Bernardini, l. c.
OTTAVA 44.a
” ’O nzagnatore “, il flebotomo, un tal Marotta, che cavò sangue al Re.
Il dott. Giuseppe Leone, chiamato in fretta, curò il Re tutto il tempo in cui S. M. stette a Lecce; e lasciò un giornale della malattia, pubblicato dal Bernardini nel suo “Ferdinando II a Lecce”.
” Miccia miccia “, lenta lenta, insistente.
” Freva “, febbre.
OTTAVA 45.a
Il medico di corte dott. Ramaglia giunse giorni dopo a Lecce col suo giovane aiutante Capozzi che fu poi l’insigne scienziato senatore Capozzi.
“… ll’anema e II’urzo! ” Espressione che vale: tutto il mondo, tutti gli accidenti possibili.
OTTAVE 46.a e 47.a
Pel contenuto di queste due ottave, cfr. gli storici.
” Mettimmo ncopp’a cuotto acqua vulluta ” corrisponde alla frase: Mettiamo olio sul fuoco.
“Quanto hai avuto per darmi questo consiglio?„ disse il Re, (e son parole testuali), al Ramaglia, sospettando che fosse stato corrotto dai liberali.
OTTAVA 48.a
” Cuoccio tuosto “, testa dura, ostinata.
” Simmelo “, simile, uguale.
” ’Ncucciava “, impuntava, si ostinava.
” Malato e buono “, espressione comune e curiosissima. In questo caso, vuol dire: tuttoché malato, ad onta della malattia.
OTTAVA 49.a
” Misturella “, sorta di bevanda calmante che si dà ai bambini deboli per rianimarli. E ironicamente si usa per indicare un veleno.
” Jacuvella “, scherzetto, pettegolezzo, ecc. Qui è detto ironicamente e allude al voluto complotto per l’avvelenamento del Re.
OTTAVA 50.a
” Rammaggio “, corruzione della voce “dammaggio”, dal francese dommage: danno, sciagura, sventura, disgrazia.
OTTAVA 51.a
” Na cunfrataria “, una confraternita coi sacchi ed i ceri, che apparve mentre il Re ringraziava il popolo plaudente.
Cfr. de Cesare e Bernardini.
OTTAVA 52.a
” A chi l’assigne? ” Che mi vai contando?
” Ncujeta “, da ” ncujetare “, disturbare, stuzzicare, toglier la quiete.
OTTAVA 54.a
” Mutriuso “, da ” mutria “, musoneria, ipocondria.
OTTAVA 57.a
” Abbetiello “, scapolare,
OTTAVA 58.a
” Spantecava “, da ” spanteco “, sgomento, raccapriccio.
” Tremmuliccio “, tremito.
Corse insistentemente la voce che il Re, prima di morire, fosse divorato dai vermi che brulicavano dalle piaghe aperte. La scienza smentì la cosa, ma vi è ancora chi giura che il veleno, corrompendogli il sangue, fece pullular sul corpo piagato quella verminaia.
OTTAVE 59.a 60.a 61.a 62.a
Cfr. gli storici. L’insigne dott. Lanza, troppo tardi chiamato, disse: “Nutricatelo con latte di femmina!„ Il dott. Rosati sorrise; e il Lanza: “Innanzi a Vincenzo Lanza non si ride! Il Re è spacciato!„ Cfr. anche: di Martino, Ricordanze storico-morali.
” Tre calle “: l’antica moneta napoletana di tre cavalli.
OTTAVA 63.a
” Zuzzosa “, sozza.
OTTAVA 64.a
“Zecca”, l’antica Zecca, ove si coniavano le monete. Ognuno sperava di arricchirsi tanto, da diventar padrone di una Zecca – comenta il nostro luciano.