Ξ Lazzaro Napoletano » Storia, mito e … » Campi Flegrei » Da Napoli a Pozzuoli
da “Il prodigio della crypta Neapolitana”
in “Storia, miti e leggende dei Campi Flegrei”
di Giampaolo Infusino
(Ho scelto di lasciare inserito un passo di Alessandro Dumas ritenendolo importante, per la forza e l’effetto descrittivo, al fine di questo lavoro. Ma resta ferma la mia avversione verso questo scrittore che tante volte ha contribuito con i suoi scritti a gettare fango sul Popolo del Regno delle Due Sicilie, riportando notizie di pura invenzione e di solo suo convincimento politico.)
“Durante questa esplorazione il nostro cocchiere, seccato per la nostra lunga assenza, era entrato in un’osteria per distrarsi. Quando ridiscendemmo verso Chiaia, lo trovammo ubriaco come avrebbe potuto esserlo Orazio o Gallo. La piccola infrazione alle regole della temperanza ricadde sui poveri cavalli che, eccitati dalla frusta del loro padrone, ci trasportarono a triplice galoppo verso la grotta di Pozzuoli (1). Avemmo un bel dire che volevamo fermarci all’ingresso della grotta e traversarla a passo per tutta la lunghezza.
Sventuratamente avevamo appena fatto cento passi in quel corridoio infernale, che investimmo un carretto. Il cocchiere che stava in dietro noi, saltò al di sopra delle nostre teste, noi saltammo al di sopra di quelle dei cavalli. I cavalli stramazzarono: una ruota del corricolo continuò la sua strada, mentre l’altra, impegnata nel mozzo del carretto, si fermò di botto col resto dell’equipaggio. Credetti che fossimo tutti annientati; per fortuna il dio degli ubriaconi, che vegliava sul nostro cocchiere, si degnò di estendere la sua protezione fino a noi, per indegni che ne fossimo: ci rialzammo senza un graffio, solo i tiranti del bilancino erano spezzati. Si ricordi che il bilancino è il cavallo che galoppa a fianco del cavallo timoniere chiuso fra le stanghe.
Il nostro conducente dichiarò che gli abbisognava un quarto d’ora per rimettere in ordine il suo equipaggio; tanto più volentieri glielo accordammo in quanto a noi occorreva lo stesso tempo per visitare la grotta.
Al tempo di Seneca, quando non c’erano ferrovie, e di conseguenza non si traforavano le montagne, ma ci si passava semplicemente sopra, la grotta di Pozzuoli era una grande curiosità. Perciò egli, Seneca, se ne occupa più di quanto al tempo nostro farebbe l’ultimo ingegnere di ponti e di strade e, poetizzando questa specie di cantina, non buona neanche a tenerci il vino, la chiama una lunga prigione e disserta sulla forza involontaria delle impressioni. Quanto a noi, non so se la capriola che avevamo fatta fosse nociuto alla nostra immaginazione; ma non dispiaccia a Seneca, non fummo impressionati che dall’abominevole puzzo di olio emanato dai sessantaquattro lampioni accesi in quella grande tana.
Nonostante quei sessantaquattro lampioni v’è una tale oscurità nella grotta di Pozzuoli che solo guidati dalla voce avvinazzata del nostro cocchiere riuscimmo a trovare il nostro corricolo. Vi salimmo dentro, il cocchiere risalì dietro e, come per dimostrare ai disgraziati cavalli che non era lui ad aver torto, esordì con la più splendida frustata che mai i cavalli abbina ricevuta dai corsieri di Achille.
Vi sono tuttavia dei giorni in cui la grotta di Pozzuoli è splendidamente illuminata: sono i giorni dell’equinozio. Il sole, tramontando esattamente di fronte alla grotta, la trapassa con il suo ultimo raggio e la indora mirabilmente da una estremità all’altra.
Ci erano capitaati tanti imbarazzi nella sciagurata grotta che non senza piacere ritrovammo la luce. Senza dubbio per indennizzare il viaggiatore della perdita che ha fatto momentaneamente, la natura, all’uscita del lungo e tetro corridoio, si presenta vezzosa, animata e piena di fantasiosi accidenti.
Tuttavia, poichè un tremendo sole dardeggiava le nostre teste, non ci fermammo troppo ad analizzarli e, dietro indicazioni di un passante, lasciata la strada maestra, prendemmo un viottolo che conduce al lago di Agnano.” (2)
La linea di colline che dal Vomero fino a capo Posillipo cingono ad ovest il golfo di Napoli, tracciano una sorta di confine naturale tra il golfo partenopeo e quello puteolano.
Nell’antichità la via di comunicazione più rapida tra le due città rivali era la “Via Antiniana”: questa scavalcava la linea collinare nel punto più basso (all’altezza di Via Salvator Rosa) e passando per Antignano (nella zona del cosiddetto Vomero Vecchio) e Soccavo fiancheggiava il lago di Agnano e la Solfatara (3), discendendo fino a Pozzuoli attraverso la collina di San Gennaro (4) e dell’Anfiteatro.
Nel periodo della guerra civile tra Pompeo ed Ottaviano quando per necessità militari si dovette riorganizzare tutta la rete stradale della regione e l’intero litorale flegreo venne trasformato in un’enorme presidio militare, si avvertì la necessità di creare una comunicazione diretta tra le due città mediante una via litoranea che costeggiando l’altura di Pizzofalcone, la Riviera di Chiaia e Mergellina attraversasse in galleria la collina per raggiungere Pozzuoli lungo la ninea di mare (Via Puteolana). Il tagli di questa galleria è da attribuire per esplicita ed indiscussa testimonianza di Strabone all’architetto Cocceio, l’ingegnoso ideatore, sotto Agrippa ed Ottaviano della maggior parte delle opere architettoniche e militari della zona flegrea (5).
“La grotta che il volgo chiama comunemente di Pozzuoli, perchè mena a tal paese, è opera meravigliosa e per la sua remota antichità e per la struttura e modo come fu eseguita. Taluno afferma essere stata in origine un cavo di pietra fatto per la costruzione della città di Napoli o di Cuma come altri dice e a caso fu perforata dall’altro lato, dappoi utilizzata e ridotta a strada. V’è chi crede di essere stata scavata in una notte sola da Virgilio per via d’incantesimi ed altri scrive che fu eseguita in quindici giorni dall’illustre architetto Cocceio, il quale vi impiegò centomila uomini. Sembra pertanto più probabile che sia stata fatta da Lucullo o da Agrippa; però fu dessa scavata ad imitazione di quella, che dall’Averno usciva a Cuma e dall’altra che da Pozzuoli menava alla nuova città.” (6).
La Crypta Neapolitana restaurata più volte, abbassata ed allargata ha quasi completamente perso la sua forma originale. Le frane e gli scoscendimenti l’hanno resa negli ultimi decenni quasi completamente inaccessibile (7).
“Se ti disgusta, o forestiere, il tetro ingresso a questo sotterraneo cammino, se ti opprime l’oscurità, e il polverio che incontri nell’ingolfartici, se ti atterrisce l’inaspettato movimento della folla, che lo attraversa, non arrestare il tuo piede. Trasportati col pensiero agli antichi tempi e diverrai estatico al ricordarti che qua si va alle oscure e cavernose abitazioni de’ Cimmeri, all’antro della Cumana Sibilla, alla barca di Caronte, alla palude Stigia, all’inferno, agli Elisi, in un paradosso, all’altro Mondo degli antichi. Assorto in questa classiche idee t’inoltrerai coraggioso, e fose all’aspetto del cencioso povero, ti sembrerà di vedere l’irsuto Caronte redivivo” (8).
Oggi il tunnel “delle quattro giornate” ha completamente sostituito l’originario tunnel pericolante di Fuorigrotta. Meno suggestivo ma sicuramente più funzionale ai fabbisogni della città ha fatto ormai cadere nell’oblio gli antichi passaggi al mondo dell’Ade, trasferendo l’inferno delle sponde dell’Averno a quello meno suggestivo ma altrettanto diabolico del traffico di Fuorigrotta.
(1) La crypta Neapolitana era conosciuta anche con il nome di grotta di Pozzuoli.
(2) da Alessandro Dumas, “Il corricolo”, I volume.
(3) La solfatara è il cratere di un vulcano attivo di forma ellittica che nel suo asse maggiore misura 700 metri di lunghezza. La suggestione nel visitarlo è notevole. Da questa terra dal vago aspetto lunare fuoriescono da numerose fenditure e piccoli crateri fumo, calore e fanghi bollenti. Il luogo è così chiamato perchè la fase di attività del vulcano è appunto di “solfatara”. Questo vulcano era chiamato dagli antichi greci “Nonte Leucogeo” in quanto era perennemente ricoperto dalle nubi e dai vapori esalati dalle fumarole.
(4) Qui sorge la famosa chiesa di San Gennaro, costruita nel 1580 nul luogo dove s iracconta venne giustiziato il Santo. In questa chiesa si conserva la pietra sulla quale avvenne la decapitazione e sulla quale possono essere scorte le ombre delle macchie del Santo. La tradizione vuole che nello stesso momento in cui nella cappella del tesoro di San Gennaro nel Duomo di Napoli avviene il miracolo della liquefazione, le macchie sulla pietra si ravvivino fino a diventare di un rosso rubino.
(5) All’ingegno di Cocceio sono attribuite altre due famose gallerie: la grande crypta tra il lago d’Averno ed il monte di Cuma, e quella di Seiano, che forando la collina di Posillipo metteva in comunicazione la villa di Vedio Pollione con la piana di Coroglio.
(6) F. Alvino, “La collina di Posillipo”, 1845
(7) La lunghezza attuale risulta essere di poco più di 700 metri; la larghezza e l’altezza originaria, per quanto è possibile giudicare dalle tracce rimaste sarebbero state minori di quelle della Crypta Cumana e cioè 3,20 metri di larghezza per un minimo di 2,80 metri di altezza.