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… fino all’arrivo dei Greci


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in “Napoli entro le mura”
di Massimo Rosi

Tutta l’estensione dell’Italia meridionale nell’età antica appariva abitata da popolazioni stanziali, in particolare nelle sole zone interne, in misura minore, a ridosso delle rive; queste erano percorse da genti che, provenienti dal bacino orientale del Mediterraneo in particolare dalla Grecia, seguivano le rotte del ferro e di altre materie prime, fondando colonie lungo gli itinerari costieri.
Nella fertile pianura compresa tra il fiume Volturno e il monte Vesuvio, attraversata dal piccolo fiume Clanis poi Regi Lagni, risiedevano i Campani, di ceppo sannita; nelle zone interne e collinari erano stanziati i Caudini.
Dal X all’VIII secolo a.C., l’ampia zona del golfo di Napoli, delle isole e dell’entroterra, vedeva già, oltre all’insediamento di popolazioni locali e alla penetrazione di quelle etrusche, quello di coloni greci che, dai propri siti d’origine, si spingevano lungo le coste e nelle isole costituendo possessi tra loro collegati con colonie e subcolonie o, secondo le circostanze dipendenti dalle vicende generali della Magna Grecia, in guerra tra loro. Fatti e avvenimenti testimoniati dalla tradizione scritta e dai primi documenti epigrafici.
All’inizio della colonizzazione non è il golfo di Napoli ad offrire luoghi di insediamento, che avrebbero dovuto corrispondere sempre alla triplice condizione ricercata dai Greci della rupe a strapiombo facilmente difendibile, di un porto naturale e della vicinanza dell’acqua dolce che, con la foce di un ruscello o di un fiume, avrebbe potuto comprendere, allo stesso tempo, quella dell’approvvigionamento idrico e del porto.

Scrive Gino Doria in Storia di una capitale:
“Quando Ulisse, legato all’albero della sua nave per sfuggire alla seduzione delle tre Sirene – come ce lo mostra il celebre vaso del British Museum -, ebbe superato il braccio di mare che separa e congiunge l’isola di Capri e la penisola sorrentina; e ai suoi occhi, pur adusati agli incanti glauchi dell’Egeo e dello Ionio, si aperse l’incomparabile spettacolo del golfo, che fu detto di Napoli; e vide un succedersi di montagne e di colline, del più puro contorno, coperte di boschi digradanti fino alla riva, e spiagge assolate splendenti come oro, e seni profondi e misteriosi, e un cielo singolarmente luminoso su questo scenario; il prudente uomo della petrosa Itaca dovè, suo malgrado, lasciarsi trascinare dall’entusiasmo – egli che aveva resistito, sia pure con lo sforzo delle funi anzichè della volontà, ai richiami di Ligea, di Leucosia e di Partenope – e dirsi, con l’orgoglio dello scopritore, che egli era penetrato, per il primo, nell’Olimpo terrestre e che quivi avrebbe dovuto stanziarsi e propagarsi una razza di eroi semidivini, che dalla bellezza e dalla feracità dei luoghi avrebbero tratta la più grande felicità di vita.”

I luoghi dove poi sarebbe sorto l’insediamento greco si presentavano allora in modo esemplare: l’arco del golfo era compreso tra l’amenissimo promontorio di Pausilypon (sosta al dolore), con la zona pianeggiante percorsa da piccoli fiumi, e la costa a tratti sabbioso, a tratti rupestre, della penisola sorrentina.
La zona occidentale si prolungava nelle fratture del banco tufaceo di Marechiaro e con l’isola di Nisida si protendeva verso i Campi Flegrei, che allora apparivano in tutta la loro attività vulcanica; la zona orientale si concludeva invece con la rocciosa isola di Capri: su tutto il golfo dominava il monte Vesuvio, vulcano quiescente e non noto per tale.

Riporta A. Scherillo nella Storia di Napoli:
“La topografia è stata determinante per la fondazione della città, la popolazione geografica ha fatto sì che essa si sviluppasse in una metropoli, la geologia e la stratigrafia caratterizzano questa città e – insieme col clima estremamente mite – ne fanno un complesso unico al mondo.

I primi insediamenti infatti avvengono a Vivara e nella grande isola di Ischia (Pitecusa) a monte Vico, dove sono stati ritrovati reperti importanti, forse la prima iscrizione in greco su un vaso, e sulla costa del litorale tirrenico a Nord oltre capo Miseno, dove sorgerà e si svilupperà Cuma.

Scrive, ancora, il Doria:
“Nel periodo del loro massimo splendore (700-500) gli Eubei di Cuma estesero il loro influsso non soltanto sulle località immediatamente vicine: Baia, Miseno, Dicearchia, poi Pozzuoli (che fu probabilmente una colonia di fuoriusciti di Samo), ma fin sulle coste del Lazio e dell’Etruria. I Cumani, come dimostrano i numerosi ritrovamenti archeologici, ebbero civiltà assai progredita; ad essi i popoli della penisola, non esclusi gli Etruschi, dovettero l’introduzione dell’alfabeto. E forse ad essi deve Napoli la vita. Tale, almeno, fu l’opinione prevalente fra i dotti che, per i primi, si posero il problema delle origini di Napoli.”

Solo quando la posizione dei coloni greci si rafforza, si ha la fondazione di Partenope, poi detta Palepoli. Questa città, non sorretta sufficientemente da Cuma a causa delle guerre contro gli Etruschi, decade e allorquando i conflitti vengono risolti favorevolmente ai Greci intorno al 474 a.C. con la vittoria nelle acque di Cuma, si verificarono le condizioni per la rinascita della prima città; “Neapolis non viene rappresentata come una città fondata ex novo”. secondo G.P. Carelli, “senza legami con l’antica […] essa va considerata come una nuova zona urbana.”
I Greci entrarono in contatto con gli Etruschi che tra tutti i gruppi etnici in Italia si distinguevano per numero, forza e supremazia culturale, e costituivano centri propulsori di civiltà; costituirono una confederazione tra le varie città che però con la sua sconfitta segnò la fine dell’egemonia nella regione, accentuata da quella in mare da parte della flotta siracusana; questo fatto da un lato determinò l’arretramento territoriale della potenza etrusca, dall’altro il rafforzamento, nelle zone interne, dei Sanniti.
Sono questi i luoghi quindi nei quali, coloni greci di origine mumana, avrebbero posto le basi per un insediamento nella zona di Pizzofalcone, ritrovando le condizioni prima dette della rupe facilmente difendibile, del cordo d’acqua, nella cui foce poter riparare le navi arenandole sulle rive.

Scrive M. Napoli:
“La ricchezza di acqua del sottosuolo di Napoli è nota ed abbiamo la prova di un flusso d’acqua sotterraneo molto forte che termina proprio ai piedi di Pizzofalcone, ad oriente. Il nome più antico di questo corso d’acqua doveva essere, secondo la testimonianza di Licofrone, “Glanis”, laddove durante tutta la vita di Neapolis fu chiamato Sebeto, nome di difficile etimologia ma con lo scomparire del fiume se ne perse il ricordo, per cui a partire dall’età umanistica lo si cercò invano, ed il Boccaccio, il Pontano, il Sannazzaro decisero di chiamare Sebeto quel piccolo corso d’acqua che sino ad allora era chiamato Rubeolo, che scorre ai piedi del Vesuvio, ad oriente di Napoli, e che ancora oggi conserva impropriamente il nome di Sebeto.”

Ritrovamenti ottenuti con sondaggi effettuati negli ultimi anni, in una zona intensamente urbanizzata, come quella di Montedidio, sembrano confermare l’insediamento nella zona tra il crinale a Mezzogiorno di monte Echia ed il displuvio costituito da via Chiaja, ed inoltre, superato questo ostacolo naturale, si sono trovate tracce di una necropoli nella zona di via Nicotera. La via d’acqua, un naturale displuvio, costituita dall’odierna via Chiaja, venne a quel tempo approfondita e regolarizzata dagli abitanti di Pizzofalcone, in modo da costituire un formidabile ostacolo dalla parte interna verso terra e la lunga rampa, l’attuale via Gennaro Serra, era la sola via d’accesso, facilmente difendibile, alla zona superiore e pianeggiante di Montedidio.
Potrebbe essere stata questa l’antica città Partenope o Palepoli, contrapposta all’altra di fondazione euboica Neapolis ubicata sul pianoro che dall’entroterra si affacciava sul mare, e che fu detto in seguito Pendino. Queste due città nel tempo ne costituirono una sola, probabilmente dopo essersi anche a lungo combattute.

Dice Gino Doria:
“Per noi, come che sia, due urbes separate, ma formanti una sola civitas, o una urbs unica, è perfettamente lo stesso. Anche i sostenitori della doppia città devono ammettere che non è possibile precisare se l’una fosse essenzialmente greca e l’altra essenzialmente sannitica, essendo invece assai probabile che primitivi elementi greci e successive infiltrazioni sannitiche coesistessero sia nell’una sia nell’altra città. Ciò si desume principalmente dal racconto della guerra palepolitana, secondo Livio, o guerra napoletana, secondo Dionigi.”

Comunque, sembra assai accreditata presso gli studiosi, dagli studi sviluppati negli ultimi anni, la tesi della fondazione di Palepoli, prima sulla rupe di Pizzofalcone, il vulcano spento monte Echia, e della successiva formazione di Neapolis nella zona del Pendino, come parte nuova del medesimo insediamento urbanistico, nella porzione centrale del golfo di Napoli e poco distante dal monte Vesuvio.

Il grande pianoro, in gran parte costituito da un banco di tufo giallo misto ad altri prodotti vulcanici, detto Pendino, scendeva dall’entroterra fino al mare, dove con un salto di circa otto metri raggiungeva la spiaggia. La città che qui si edifica si sviluppa secondo le idee dell’urbanistica antica, in particolare di Ippodamo da Mileto; una scacchiera regolare di strade principali (plateiai) che conducono nei luoghi di scambio commerciale e di importanza civile, con l’agorà, la piazza mercato, ed una serie di strade minori a queste perpendicolai (stenopoi).
La città, una delle poche nella tarda età del ferro, è cinta di mura: mura basse realizzate a camera, intervallate da torri quadre, come le possiamo oggi vedere a Pestum, con l’impiego di grandi bolcchi tufacei, parallelepipedi murati a secco, con uno spigolo smussato per una migliore posa in opera, sempre recanti i segni distintivi degli scalpellini per il lavoro a cottimo, ancora visibili a via Foria, alle spalle della scuola Salvator Rosa, o in piazza Bellini. Ancora visibili alla fine del tragitto sotterraneo, vero e proprio viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio, percorrente tutti i periodi storici, sotto la basilica si S. Restituta al Duomo. Già gli scavi di fondazione effettuati nel corso del XVII secolo per l’obelisco di piazza S. Domenico Maggiore, erano emerse testimonianze della murazione greca; ancor più furono evidenti quando, con uno scavo praticato nel 1943 per un ricovero antiaereo, poi ricoperto, comparvero una torre, un arco tompagnato, una scala, testimonianti il confine occidentale delle mura.
All’interno del recinto della murazione vi è molto spazio libero: tra la stessa struttura urbana di case e strade e la cinta, vi sono orti e campi, stazzi per gli animali, pozzi e depositi alimentari, ricavati anche nel doppio muro della cerchia. Inoltre nella zona più alta, detta Olimpiano (l’area dell’attuale I Policlinico) che all’epoca doveva essere meno rilevata, come dimostrano ritrovamenti fittili in stipi votive avvenuti nel 1931, vi sono le costruzioni che si vanno realizzando, dedicate alla gestione pubblica e ai riti religiosi. L’insediamento si rafforza e via via che scambi e numero di abitanti crescono, prende le forme e la consistenza di un vero e proprio agglomerato urbano.
La città greca si presenta quindi nel tempo piccola e raccolta, secondo la felice espressione dell’urbanistica classica: la città si deve cogliere con uno sguardo. La popolazione non raggiunge le sette-ottomila unità ed è ben collegata negli interessi econonomici e culturali con le altre colonie e con la madrepatria. Risaliva alla città greca la formazione della “fratrie”, a lungo conservate nel tempo, una forma di associazione tra politica e religiosa, fatta secondo i luoghi, ma principalmente secondo le attività svolte, con culti particolari; nate per esercitare pratiche religiose, nel tempo si mutarono per assumere un carattere esclusivo di gruppo che poteva esercitare anche pressioni politiche. Si è voluto vedere nelle “fratrie” l’origine dei seggi che uniti, a volte, riuscirono a far sentire il peso della loro autorità.
A una certa distanza dalle mura, sull’area dell’attuale piazza della Borsa e via Marittima, vi era il piccolo porto, molto frequentato per i traffici costieri ed emporio vivace.
I contatti con l’entroterra erano altrettanto buoni con i Nolani (anch’essi di origine greca), e principalmente con i Sanniti, contro i quali invece era dirette la nascente potenza della città latina fondata sulle rive del Tevere: Roma. Era necessario, per la politica romana di espansione e sottomissione dei vicini e per meglio penetrare nell’interno, avere le spalle sicure. e quindi stabilire con Neapolis un trattato che, alterne vicende e minacciosi assedi posti, secondo Tito Livio, tra le due città, Palepoli e Neapolis, convinsero i riottosi cittadini a stipulare circa nel 326 a.C. il “foedus neapolitanum”, un patto di alleanza, che determinava la condizione di città federata, nel quale con il rispetto dell’autonomia, dei riti e costumi e lingua, si convenne che la città fosse una città alleata e tale condizione durò fino al 90 a.C..