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dal capitolo “Napoli settecentesca” del libro “Storia di una Capitale”
(Ricciardi editore, Napoli, 1952)
«La Napoli cinquecentesca e secentesca, ispanizzante e ispanizzata, ingrandita, abbellita, cresciutone a dismisura il numero dei cittadini, agglomerati, brulicanti nei vicoli nei vicoli e nei violetti, nelle trasende e nei supportici, era diventata una città caratteristica, appunto, per il formicolare di una pittoresca plebaglia, di soldati spagnoli, di sbirri e di frati, eppure grandiosa e bella, nella cornice ineguagliabile del suo mare e delle sue colline; un città della quale Cervantes aveva potuto dire: “de Italia gloria y del mundo lustre, pues de cuantas ciudades él encierra ninguna puede haber que asì la ilustre.”
Senonchè, o bella o brutta, o grande o piccola che fosse, Napoli, durante tutto il periodo spagnuolo, rimase sempre una città di provincia, con la sua vita particolaristica, attaccatissima al patrimonio delle antiche tradizioni, con rapporti assai scarsi con l’estero, compresa la Spagna. Il regno indipendente, però, sollevandola dal torpore, la mise al livello delle grandi capitali, come Parigi, Madrid, Londra, Vienna; ne ringiovanì, con le grandi opere del primo Borbone, l’aspetto esteriore; le diede un nuovo fremito di vita, una più grande gioia di vivere e progredire. I napoletani presero a viaggiare; a osservare e notare, a introdurre in patria modi e mode degli altri paesi; e molti stranieri, per converso, venivano a Napoli, vi si fermavano per la bellezza dei luoghi e per la curiosità della vita, osservavano e notavano a loro volta, scrivevano le loro impressioni e le diffondevano in tutto il mondo. Italiani pariginizzati, come il marchese Caracciolo e l’abate Galiani; inglesi napoletanizzati, come William Hamilton; pittori tedeschi impegnati dalla corte, come la Kauffmann, il Mengs, gli Hackert e l’amico di Goethe, il Tischbein, succeduto a Giuseppe Bonito nella direzione dell’Accademia; avventurieri come il Casanova, il conte Gorani e Angelo Goudar; diplomatici e militari, archeologi e disegnatori attirati dagli scavi di Ercolano, di Pompei e di Pesto; e lo Swinburne, lo Sharp, l’Addison; e il presidente de Brosses, il presidente di Montesquieu, l’abate di Saint-Non; e il Misson, il Herder, il Volkmann, il Cochin, il Bjornsthal, il Lalande, il Duelos, il Dupaty e mille altri; dalla Reggia, dalle ambasciate, dalle accademie, dalle biblioteche e dai musei, dall’albergo delle Crocelle o dalla locanda del signor Moriconi, che albergò Goethe, annodavano infiniti legami di simpatie personali, che spesso diventavano simpatie nazionali, di cultura, di interessi pratici, di eleganze e di costumi, di pensiero religioso persino.»