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Giuseppe Porcaro


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in “Napoli – Il suo mare e il porto visti da viaggiatori illustri” Fausto Fiorentino Editore – Napoli 1964

«La nostra marina, a vela ed a vapore, in quel tempo (1840), padroneggiava i mari degli Stati Uniti, del Messico, dell’Argentina, del Brasile, delle Indie e si estendeva fino ai porti della Malesia e dell’Oceania. C’era nel nostro porto un movimento mercantile da e per l’Estero profìcuo ed importante e molto utile ai nostri interessi commerciali.

Una statistica esauriente, anche se farraginosa, delle navi entrate ed uscite dal nostro porto negli anni dal 1838 al 1840, del loro tonnellaggio, della costruzione nei nostri cantieri dei più vari tipi dì navi a vela ed a vapore, di quelle acquistate all’estero e dei loro rispettivi nomi, è contenuta, per chi volesse farsene corredo, nel volume di Achille Salzano, «La Marina Borbonica», stampato a Napoli nel 1924.

Ma ciò che mette conto di riferire qui, a completamento e chiarificazione delle osservazioni del Majer, è che Napoli e il Regno delle due Sicilie, da Ferdinando I di Borbone (1821-1825) a Francesco I (1825-1830) ed a Ferdinando II (1830-1859), si beneficiano di notevoli e sagge riforme in materia di commerci e di traffici marittimi.

Il commercio marittimo, quindi, ebbe, come abbiamo detto, sapienti riforme. Infatti, con Francesco I (giugno 1826) molte disposizioni doganali furono rivedute, modificate, riunite. La Dogana del litorale, ad esempio, venne divisa in tre classi. Il cabotaggio venne regolamentato; limitate vennero le esportazioni e finalmente stabilite le tariffe. La marina da commercio fu sottoposta alla sopraintendenza di una particolare commissione, formata di un vice ammiraglio della marina da guerra e dal direttore generale dei dazi indiretti, mentre continuò a dipendere dal Ministero delle Finanze per quanto concerneva l’interesse dell’Erario, e dal Ministero della Marina, la quale agiva tramite apposite Commissioni Marittime, per tutto il resto. Un bastimento, infatti, per poter battere bandiera del Reame delle due Sicilie, ad esempio, doveva appartenere – informa l’Assante – tutto a regnicoli, i quali dovevano avere il loro domicilio nel Regno, e il capitano e due terzi almeno dell’equipaggio dovevano essere nazionali o resi tali nelle forme di legge. Fu sotto Francesco I, anche, che alcune società di assicurazioni ebbero un loro particolare sviluppo e negli U.S.A. (a Washington) venne istituito un «Consolato Generale Napoletano» allo scopo di incrementare e movimentare il flusso mercantile marittimo da e per l’estero. Si ebbe cosi nel porto di Napoli un traffico enorme: le sole navi napoletane, che già nel 1818 raggiungevano la bella cifra di 2387, nel 1825 erano 3808, per un tonnellaggio di 106138, e nel 1837-38 erano 5493, per un tonnellaggio di 160330. Di queste ultime, solo 138 erano di costruzione estera, 938 erano destinate al commercio fuori del Regno, le altre servivano al cabotaggio ed alla pesca, non ultima quella del corallo, allora nel suo pieno vigore.

A proposito, anzi, della pesca del corallo, già da noi vagamente accennata in introduzione, non dispiaccia al lettore apprenderne qui qualche più precisa notizia.

I marinai napoletani, in particolar modo i torresi, nel Sette-Ottocento erano dediti nella quasi totalità alla pesca dei coralli, la cui caratteristica industria, di antichissima origine, è ancora oggi fiorente in alcune nostre belle cittadine rivierasche, come Resina, S. Giorgio a Cremano e Torre del Greco, mete di numerosi turisti.

Quasi ogni settimana i marinai torresi salpavano per i mari torridi di Corfù, Zante, Santa Maura nell’Egeo, per quelli della Sardegna e della Corsica, per quelli dell’Africa e della Spagna, alla pesca del corallo, onde alimentare l’artigianato napoletano.

Per l’occasione, i gruppi paranzieri, che per lo più erano costituiti o associati in Confraternite, Compagnie e simili, prendevano, o meglio contraevano, se a corto di danaro, prestiti a cambio marittirno, con regolare polizza del Banco dello Spirito Santo di Napoli, da individui cosiddetti sovventori, i quali prestavano i richiesti ducati soltanto se garantiti da istrumenti notarili. I ducati presi a prestito dai marinai servivano per armare le Feluche Coralline di tutto quanto era necessario per affrontare il lungo ed a volte rischiosissimo viaggio. Le Feluche Coralline, chiamate, per la cronaca, più comunemente Barche Coralline, portavano nella maggioranza nomi di santi, quali S. Antonio, S. Cristofaro, S. Francesco di Paola, S. Maria di Pugliano, S. Maria del Lauro, S. Michele, Madonna della Pietà ecc.

I sovventori nel dare i ducati ai capitani delle «barche coralline», trattenevano preventivamente all’incirca il 15% quale premio per eventuale «risico» (rischio) di dover perdere tutto il prestato in caso di naufragio della piccola nave, o di caduta della medesima in mano ai pirati saraceni. Al ritorno dalla pesca, in caso di inadempienza contrattuale da parte dei marinai, i sovventori adivano il Tribunale del Consolato di Mare e Terra, che spiccava le «lettere esecutoriali» contro gli inadempienti e giungeva talvolta anche al sequestro delle feluche alla fonda nei porticcioli.

Coi vantaggi acquisiti dalla marina mercantile sotto il governo di Francesco I, Ferdinando IV (poi I) e Ferdinando II, vanno di pari passo la pesca del corallo e le susseguenti società o compagnie commerciali.

Per la storia diremo che quando i marinai torresi, nel 1780, si spinsero per la pesca del corallo nei mari della costa africana e quivi occuparono un sito deserto, lontano circa 40 miglia dal lido di Barberia e 24 dall’isola di Galita, il luogo occupato fu denominato Summo dal nome del primo animoso, che quivi pervenne. Dopo che ebbero costruite capanne e pescata grande quantità di coralli, i torresi avanzarono oltre Capo Negro, Capo Rosa e Capo Bona, ricavando sempre migliori successi dalla loro pesca, di talchè quel traffico progredì enormemente ed annualmente incominciarono ad andarvi non meno di seicento «barche» con non meno di quattromila marinai, e private associazioni regolavano le leggi di quella particolare pesca. Senonchè, la Compagnia francese «Reale Africa», che pure in quei mari trafficava per lo stesso oggetto, qualificò un bel giorno usurpatori ed intrusi i marinai napoletani, contro dei quali mosse querela per le vie diplomatiche al Governo del Regno delle due Sicilie, il quale, conformemente al parere emesso dal Magistrato di Commercio in Napoli, nel 29 marzo 1788, rispose dignitosamente essere quei mari di pubblico diritto; nè i Francesi potevano accampare privilegio alcuno o privativa. Fu questa l’occasione che mosse allora il Governo Borbonico a sottoporre quella pesca a leggi e regolamenti, per non lasciarla, come per lo innanzi, soltanto alle convenzioni di privati interessi. Ond’è che nel 14 aprile 1799 fu dato fuori dal Governo di Re Ferdinando IV (I) il primo regolamento intorno alla pesca dei coralli, che fu perciò detto Codice Corallino. Tra gli altri provvedimenti, merita d’essere ricordata la fondazione di un cosidetto Monte (di maritaggio e di altri compiti assistenziali), e di una Compagnia, con seicentomila ducati di capitale, Compagnia che ebbe anche bandiera propria, portante uno scudo con torre azzurra fra due rami di corallo e con in cima tre gigli d’oro. Codesti provvedimenti, però, non furono di gran giovamento al commercio del corallo, anzi con l’avanzare del tempo esso venne notevolmente di anno in anno scemando. Ma questa specie di attività richiamò la benevole attenzione di Re Ferdinando II, che si dedicò a rianimarla e farla progredire. Previo esame della Consulta di Stato, infatti, Ferdinando sanzionò il decreto relativo con apposito regolamento del 29 gennaio 1856, contenente appunto le opportune norme per ristabilire la pesca dei coralli, che rese opulente Torre del Greco. Infatti, nella esposizione marittima di Berlino, dell’Aprile 1880, fecero bella mostra le manifatture dei coralli napoletani, ammirate e premiate dallo imperial governo prussiano. La Compagnia del Corallo venne fondata nel 27 gennaio 1790.

Ad ogni buon conto, la tradizione giuridica degli usi marittimi della pesca del corallo traeva la sua millenaria continuità dalle consuetudini elleniche e da quelle documentate a Napoli dalle carte aragonesi e continuate nei contratti alla parte e alla voce, di cui ancora è rimasta pratica nei tempi moderni.»