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in “Conosci il tuo rione – Fuorigrotta” – dall’antichità alla Mostra d’Oltremare –
di Giuseppe Lala
In età romana le vie che normalmente conducevano a Neapolis passavano per Cuma e Pozzuoli. Da Puteoli, in particolare, iniziava una strada che, attraverso via Vigna, la Solfatara, Monte Olibano, Monte Dolce, Pendino di Agnano, arrivava fino a via Terracina. Qui, molto probabilmente, doveva essere ubicata la località di Marcianum, citata da alcuni scrittori antichi a proposito della traslazione del corpo di San Gennaro.
Secondo questi autori, il corpo del Martire, subito dopo la decapitazione, fu nascosto in un luogo chiamato Marzano da dove, finite poi le persecuzioni, fu trasferito in Napoli.
Che via Terracina costituisse qualcosa di più di una semplice strada lo attestano gli innumerevoli e rilevanti ritrovamenti archeologici.
All’interno del recinto della Mostra d’Oltremare, durante i lavori di sistemazione, vennero alla luce tratti ben conservati della strada romana, una tomba a tufeli che all’epoca del ritrovamento venne peraltro eccessivamente restaurata ed altre costruzioni che attualmente si trovano ancora interrate.
Più avanti, ed esattamente all’incrocio fra la via Marconi ed il primo tratto di via Terracina sussiste un piccolo edificio termale anch’esso romano, di cui, oltre alle mura, sono ben conservati alcuni pavimenti a mosaico.
Questa terma che gli studiosi fanno risalire al II secolo, doveva essere nota ancora nella seconda metà del XV secolo. Pietro di Eboli, infatti, nel suo “De Balneis Puteolanorum ed Baiorum” del 1474, fra le 35 stazioni termali esistenti nei Campi Flegrei cita fra l’altro:
a) il Balneum Sudatorium, o Stufe di San Germano ad Agnano;
b) il Balneum Bullae, sui monti Leucogei (potrebbe riferirsi all’acqua dei Pisciarelli);
c) Balneum Astruni, situato presso l’omonimo cratere;
d) ed infine, il Balneum Foris Cryptae che dovrebbe logicamente individuarsi nelle terme romane di via Terracina.
Non molto lontano da via Terracina, nei pressi del colle Sant’Angelo, esistono ancora i rudere di un abside, forse avanzo di una cappella paleocristiana, presso la quale sono state trovate anche delle tessere di un mosaico; e ancora nel vicino rione Miraglia è ancora conservata in loco un dorso di una statua loricata.
Da Marcianum, che può essere considerato quindi un luogo di estrema importanza nel sistema viario dei Campi Flegrei, avevano inizio due strade, una che portava a Neapolis attraverso le colline ed un’altra che attraversava la Crypta Neapolitana.
La prima passava presumibilmente per il quadrivio della Loggetta ed attraverso la via della Pigna, piazzetta Santo Stefano, via Belvedere, via Annella di Massimo, piazza degli Artisti, via Conte della Cerra, via Salvator Rosa, via Tarsia, piazza Spirito Santo, entrava in Napoli per la porta individuata in piazza San Domenico.
La strada che invece attraversava la Crypta Neapolitana si svolgeva, nel tratto che riguarda Fuorigrotta, lungo il seguente itinerario: via Terracina, Cupa Canzanella Vecchia (ove esistono ancora in località Santa Maria di Costantinopoli costruzioni di epoca romana coperte da sovrastrutture recenti), via Canzanella Vecchia (ritrovamenti sporadici di tombe), via delle Legioni (a ridosso della chiesa del Buon Pastore avanzi di mura in opus testaceum), via Grotta Vecchia, Crypta Neapolitana.
La crypta fu scavata, così come ce ne riferisce lo storico romano Strabone, su progetto dell’architetto Cocceio, autore fra l’altro della grotta di Seiano, che collegava la villa di Vedio Pollione a Posillipo con la zona di Coroglio, ed è da riferirsi storicamente alla fine della Repubblica o agli inizi dell’età augustea. Essa fu costruita inizialmente per ragioni militari in quanto collegava Neapolis con le installazioni navali di Miseno, volute da Augusto.
La Crypta Neapolitana per le sue ridotte dimensioni e per le condizioni di scarsa visibilità, dovute soprattutto ai notevoli accumuli di polvere, non dovette mai costituire una strada di transito notevole. Ciò lo dimostra il fatto che la strada collinare fu potenziata tra il 96 e il 102 d.C. dall’imperatore Traiano.
Durante i lavori per la costruzione del Rione Traiano venne alla luce una pietra miliare (oggi al Museo Nazionale di Napoli) la cui iscrizione conteneva fra l’altro il nome di Traiano. Fu così che il rione prese il nome del famoso imperatore romano.
La Crypta Neapolitanan ha subito nei secoli scorsi notevoli modificazioni per cui solo uno studio condotto con un certo rigore scientifico potrà illuminarci meglio sulla sua tecnica e sulla storia. Alfonso d’Aragona e Don Pedro di Toledo fecero eseguire nella crypta dei lavori che provocarono notevoli mutamenti nella sua forma originaria. Si pensi che dal lato verso Fuorigrotta il piano di calpestio fu abbassato di 2 metri e quello sul lato orientale di ben 11 metri. Le frane ed i cedimenti delle volte hanno fatto il resto.
Essa, perfettamente rettilinea era lunga, secondo il Maiuri, 700 metri circa, larga 3,20-2,80 metri e con un’altezza che al massimo arrivava a metri 5,60. Uno studio dello Johannowsky, con misurazioni più accurate ci dà le seguenti dimensioni: lunghezza 705 metri, larghezza media metri 4,45, altezza metri 4,50-5,20. Si presentava inoltre in discesa con un dislivello di circa 11,50 metri misurando 47,50 metri s.l.m. dalla parte di Fuorigrotta e 36 metri s.l.m. dalla parte di Piedigrotta..
La Crypta ha avuto come illustre fruitore il filosofo latino Lucio Anneo Seneca il quale, sbarcato a Baia, e, subito pentitosi di aver interrotto il viaggio via mare avendo trovato le strade fangose ed impraticabili, cos’ ce la descrive in una delle sue epistole (Epist. LVII, 1, 2): “Nessun carcere più lungo di quello, nessuna fiaccola più fosca di quelle che ci paravano innanzi agli occhi non per rischiarare le tenebre, ma per far rimirare se stesse. E del resto, anche se un po’ di chiarore si fosse avuto, il polverume ce l’avrebbe tolto; sì denso e molesto era da ottenebrare anche un luogo aperto! Che dire poi di quel luogo dove in se stesso si rivolge e dove, per non essere mosso da alcun fiato di vento, ricade su quelli che lo sollevano?”.
Commenta il Maiuri nella sua “Guida ai Campi Flegrei” (I.P.S., Roma MCMLXX): “Chi non conosce la pesante e densa polvere dei terreni puteolani, lungo le strade di campagna, le cosiddette cupe, scavate dallo stropiccio dei piedi e delle ruote dei carri entro il banco di tufo, può intendere tutta la vivezza descrittiva dello scrittore latino”.
Superata la crypta la strada, dopo la tomba di Virgilio, proseguiva a monte della riviera di Chiaia sino a piazza dei Martiri (1) e di qui, per via Chiaia, giungeva a piazza Municipio, allora area portuale.
Successivamente doveva proseguire lungo via Medina e Sant’Anna dei Lombardi per entrare in città attraverso la porta di piazza San Domenico.
Adesso il collegamento della parte occidentale della città con quella orientale è assicurato dai due tunnel di cui il più recente è quello della Laziale. Sotto certi aspetti però, la situazione non è cambiata di molto: alla polvere della pozzolana, lamentata da Seneca si è sostituito lo smog generato dai gas di scarico degli autoveicoli e allo strepitio, alle grida rissose dei carrettieri immaginati dal Maiuri si sono sostituiti i rumori assordanti dei motori dei clacson. La civiltà delle macchine ha sostituito quella della trazione animale ma le condizioni ambientali non sono di certo migliorate in queste nuove cripte napoletane. Un moderno Seneca avrebbe ben altro da dire.
(1) (da “Le piazze di Napoli”, di Gennaro Ruggiero) da quando nacque fu destinata a simboleggiare sentimenti di purezza. Coi Borbone si chiamava “piazza della Pace” e aveva al centro un alto fusto di granito grigio che doveva celebrare la riconciliazione nazionale, fortemente scossa dagli avvenimenti del 1848; successivamente, annessa la città al Regno d’Italia, fu dedicata ai napoletani morti per la libertà. La piazza ha la pianta triangolare ed è caratterizzata dai palazzi che la circondano (palazzo Partana e palazzo Calabritto del XVIII secolo e palazzo Nunziante del XIX secolo) e quello che promana dal monumento attualmente collocato al centro. E’ il “monumento ai Martiri”, costituito dalla colonna già esistente nel periodo borbonico sulla quale fu collocata una statua di Emanuele Caggiano rappresentante le “Virtù di Martiri”. Alla base quattro lenoni, ciascuno dei quali con un preciso significato simbolico: il leone morente, opera di Antonio Busciolano, raffigura i caduti repubblicani del 1799; il leone trafitto dalla spada, di Stanislao Lista, rende onore ai caduti carbonari del 1820; mentre i leoni dall’aspetto maggiormente feroce, eseguiti rispettivamente da Pasquale Ricca e da Tommaso Solari, rappresentano i caduti liberali e garibaldini del 1848 e del 1860. Manca un quinto leone: quello simboleggiante gli umili soldati napoletani che si batterono per la propria patria e per il proprio re (l’unica patria e l’unico re che conoscessero) e che, dopo avere imprecato rabbiosamente contro i propri generali felloni, seppero scrivere a Gaeta una pagina bellissima di sacrificio e di fedeltà. L’omissione è molto triste (e per nulla educativa), ma si sa che chi perde non può pretendere monumenti.
Nota di Gennaro Agrillo: concordo con il Ruggiero ma sarebbe bello che il quinto leone simboleggiasse anche i popolani (i Lazzari) del 1799 che si opposero, soccombendo, all’invasione francese voluta dai repubblicani napoletani che, non solo tradirono la Corona (e questo potrei anche capirlo), ma tradirono la Patria consegnandola al saccheggio e allo stupro straniero.